LA PAZZIA DI DIO PER L’UOMO
LE RELAZIONI
DON ALESSANDRO SANTORO
(Comunità “Le Piagge” di Firenze)
LA PAZZIA DI DIO PER L’UOMO
La pazzia più grossa di Dio è quella di compromettersi con l’uomo: Dio si spoglia della Sua divinità perché vuole che l’uomo sia libero, che esca dalla sua presunzione e dalle sue fortezze per lasciarsi provocare dall’umanità. Dio si spoglia perché è indignato dal fatto che troppi suoi figli sono maltrattati e oppressi, e si abbassa perché l’uomo faccia altrettanto, si ponga in prossimità dell’altro, si schieri e “patisca con” l’altro.
Lo spazio utilizzato dalla nostra comunità per le celebrazioni è un Centro sociale, che le persone hanno riguadagnato come spazio e luogo di confronto. Lo chiamiamo pandoce‹on (pandocheion). In Lc 10,35 pandoce‹on è la locanda del Buon Samaritano, cioè “un luogo che accoglie tutti e tutto”. Per noi la Chiesa dovrebbe essere un luogo così; un luogo che se deve avere delle mura le ha soltanto perché possa essere funzionale a proteggere dai cambiamenti climatici e che probabilmente Chiesa sarà Chiesa quando saremo capaci di abbattere i muri delle nostre chiese e smettere di costruire una “religione del tempio”. Un percorso di fede che si radica e ha come suolo il piede e la fatica dell’essere umano e come tetto il cielo depositario dei sogni, delle speranze e delle fatiche degli stessi esseri umani e come muri gli orizzonti della nostra storia quotidiana e come grande altare i nostri vissuti.
La pazzia di Dio ci costringe ad avere alcune parole chiave nel nostro cammino, da cui non poter transigere, perché Dio stesso rispetto a certe cose non transige.
Parto dal pensiero di un non credente (per me non esistono i non credenti, perché tutti credono in qualcosa: dal momento in cui si mette il naso nel mondo si crede, per il fatto già di accettare di respirare un secondo dopo). Dice: “Pasqua è voce del verbo ebraico pesah, cioè passare; non è festa per residenti ma per migratori che si affrettano al viaggio. Da non credente vedo le persone di fede così: non impiantate in un centro della loro certezza ma continuamente in movimento sulle piste. Chi crede è in cerca di un rinnovo quotidiano dell’energia di credere. Scruta perciò ogni segno di presenza” (Erri De Luca).
È uno sguardo prospettico di un uomo che si è messo fuori da una situazione di fede, che legge il nostro mondo. Lo legge in maniera un po’ nostalgica della serie: “mi piacerebbe vedere uomini di fede che… ma probabilmente non riesco più a vederli”.
La pazzia più grossa, la follia più profonda di Dio è di compromettersi completamente con l’essere umano. Se noi continuiamo a leggere Dio come un assoluto – che siccome è altro da noi, proprio perché è altro è tutto quello che noi non siamo – rischiamo di rendere Dio onnipotente, ma assolutamente incapace di relazionarsi con la storia umana.
Dio compie il salto che l’uomo chiede a se stesso: il salto della fede. Dio si spoglia della sua divinità, la scioglie, la abbassa, perché vuole rendere l’uomo libero; perché vuole che l’uomo si muova ed esca dalla sua presunzione, dalle sue fortezze, e si lasci provocare dal mondo e dall’umanità.
Andiamo alla Lettera ai Filippesi. Le comunità nate dalla predicazione di S. Paolo già da allora si contaminavano, si lasciavano condizionare dagli usi del tempo, oppure dal fallimento di una storia, dalla persecuzione che c’era. Erano comunità che si erano messe in cammino e cercavano di ricostruire il sogno Dio per la storia umana, ma che combattevano contro un sistema di morte, di oppressione profonda. E allora avevano bisogno di ridire a se stesse quel sogno.
Al capitolo 2 c’è prima una parte parenetica, esortativa, cioè come la comunità dovrebbe essere che poi si apre ad un inno cristologico altissimo. Mi fermo su un’espressione che però va letta dentro questo contesto, che riguarda la follia di Dio (che dovrebbe rendere anche noi pazzi). In questo caso la parola “noi pazzi” potrebbe essere “noi profondamente obbedienti”, che può sembrare esattamente l’opposto e che invece è il massimo della pazzia (ve lo dice uno che è tacciato di “disobbediente”). Dio… spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Detto tra di noi potremmo dire: ma chi gliel’ha fatto fare? Dio spoglia se stesso. L’espressione greca, che è molto più pregnante è kenosis; la condizione umana di spogliarsi dell’uomo e della donna richiama la Genesi, è la condizione della profonda nudità. La nostalgia di Dio è la nudità dell’uomo e della donna.
Quando S. Paolo parla di “rivestirsi di Cristo” (Gal 3,27) parla di rivestirsi di quella “nudità”, l’unica veste possibile. Dio sceglie di spogliarsi (lo dico antropomorficamente come Dio che pensa) perché grattandosi il capo, non ne può più di quest’uomo – che nella sua storia, in questa parabola di violenza che è raccontata nei primi 11 capitoli della Genesi, fino alla Torre di Babele che è il massimo dell’incomprensione dell’essere umano… che è il sistema omologante di oggi: gli uomini parlano le stesse lingue ma non si capiscono.
Dio, grattandosi il capo, sente lui stesso di doversi mettere in gioco fino in fondo, di perdere la sua onnipotenza. Quando noi smetteremo di considerare questo tipo di espressione una bestemmia forse riusciremo a costruire comunità che sono “sale della terra e luce del mondo”.
Dio stesso, quel Dio che ci hanno infagottato e imprigionato in mille modi, quel Dio che sentiamo sempre così distante e onnipotente, diventa (come dice Bonhoeffer) non più onnipotente ma omnidebole, un Dio debole.
È un Dio che accetta di ridursi (in senso positivo), di abbassarsi (sarebbe l’espressione più vera), di mettersi a nudo, di mettersi in gioco, di perdersi perché l’uomo faccia altrettanto. Per rendere possibile all’uomo quello che l’uomo nella sua costituzione storica considera impossibile.
È la pazzia di Dio. È quella che S. Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi chiama “la stoltezza della Croce”. S. Paolo la mette di fronte ai Corinzi per far vedere la loro vanità. La stoltezza della Croce è la follia di Dio che, dopo essersi abbassato fino in fondo, si fa obbediente.
Obbedire nel significato letterale del termine che è ob-audire, dare ascolto. Il grande Credo del popolo d’Israele comincia così: Shemà Israel (Ascolta Israele). L’ascoltare è la vera obbedienza.
C’è un “porsi di fronte” di Gesù per poter recuperare l’orizzontalità della relazione. Gesù fa questo. La stoltezza della Croce è la capacità di mettere insieme la dimensione verticale con la dimensione orizzontale.
Gesù, nella sua follia di spogliarsi, arriva fino ad una follia “manicomiale” di essere obbediente fino alla morte, di perdersi completamente. Ma perché Gesù accetta di morire, di andare fino alla morte?
Ma non era Dio? Non è Dio tanto grande? È il dramma dei discepoli, degli amici di Gesù e anche il nostro, anche se poi lo esprimiamo con altre parole, diciamo che comunque è un mistero…
Gesù accetta di morire, va fino alla morte perché in questo modo (ed è l’unico modo possibile) rende possibile a noi quello che noi, lungo la storia umana, abbiamo creduto impraticabile e, al limite, eventualmente parzialmente imitabile. Questa è fedeltà profonda alla vita, per cui uno è disposto a spogliarsi di tutto, a “rendersi uomo tra gli uomini” (Frei Betto, Uomo fra gli uomini).
La follia più grande è questa ed è una riproposta per noi, perché il grosso errore che noi facciamo (perché educati così) è quello di pensare che è una cosa straordinaria per Gesù (… tanto lui era Dio), senza pensare che è una riproposta per la nostra storia.
Queste comunità dicevano queste cose per la propria storia personale, perché fossero obbedienti a questo impegno vitale. La dimensione fondamentale della follia di Dio che è la spoliazione, l’abbassamento, dovrebbe essere la radice del nostro essere comunità e del nostro essere uomini. Non c’è cammino se non c’è spoliazione. E qui spoliazione la possiamo tradurre in tanti modi a seconda della posizione che ha dinanzi al mondo. Potremmo dire: se non c’è dubbio, se non c’è domanda, se non c’è il coraggio di spogliarsi, se non c’è la capacità di mettersi in gioco, di perdersi.
Dobbiamo riproporre questa follia per la nostra vita quotidiana, per la nostra esistenza e rendere le nostre comunità espressione di questa follia.
C’è un’espressione biblica, che può tradurre in maniera sana questa dimensione, senza essere presi davvero per folli ed è la compassione. Non però nella forma edulcorata in cui viene tradotta “diamogli una mano, poverino” (per cui c’è sempre quest’atteggiamento da docente a discente che è caratteristico del cattolico o meglio del religioso nella sua strutturazione) ma nel senso della passione, cioè del patire-con l’altro.
Perché questa spoliazione indica anche un riposizionarsi di Dio, diverso rispetto all’umanità, che dobbiamo recuperare. Andiamo a vedere nella nostra realtà quotidiana come ci poniamo, come si ripropongono le nostre parrocchie, le nostre case religiose, le nostre comunità e vediamo se c’è un tradimento oppure no.
Dio si riposiziona rispetto al mondo. In questo paradossale modo di spogliarsi, Dio rimane altro ma si posiziona nella prossimità all’altro. Si pone accanto all’altro, sta con l’altro.
La grande follia di Dio che dovrebbe accompagnare anche il nostro percorso è: non essere più riferimento per, ma stare con. Per cui io non sono più uno da cui prendere qualcosa ma una persona da incontrare; per cui io posso ricevere da voi, e voi potete ricevere da me.
Dobbiamo ridurre il più possibile le distanze, le soglie da varcare, i luoghi di separazione. La parola separato vuol dire assoluto; l’esatto opposto del simbolo. È il diavolo (che noi ci immaginiamo con le corna…) che è la separazione, quella che S. Paolo chiama l’inimicizia, la divisione…
Dio, che si mette a fianco dell’umanità e si mette ad obbedire e ad ascoltare l’uomo, ci insegna la disobbedienza rispetto alle leggi ingiuste, nel suo profondo obbedire alle istanze dell’essere umano. È una disobbedienza poi che porterà al massacro dal punto di vista formale ma che è necessaria per rispondere al sogno profondo di Dio con l’umanità e per l’umanità.
Nell’incontro, nella relazione, in questo perdersi con l’umanità Dio piange, soffre; sempre S. Paolo direbbe: geme, come nelle doglie del parto, perché questo popolo era… e non è più. E Dio risponde al fallimento con qualcosa che a noi non riesce e che dobbiamo imparare: con la fedeltà, l’hesed biblico.
Questa è sempre obbedienza alla vita. È come una mamma, un padre che si vedono un figlio che sanno che si sta perdendo, ma sanno che se vanno a riprenderlo in quel momento, probabilmente faranno peggio che meglio e sono quasi costretti a vederlo toccare il fondo. Dio, come una mamma, non può fare altro perché dal momento in cui si è spogliato ha bisogno di te. Non può fare altro che continuare a chiederti e a sperare, e in quella fedeltà essere lì perché tu possa riproporti in maniera diversa e salvare questa umanità.
Come nasce la comunità?
Leggiamo i primi cinque capitoli degli Atti degli Apostoli. Prima della Pentecoste c’è l’Ascensione, un momento straordinario che è una chiave per leggere questi capitoli degli Atti. “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”. A volte nelle nostre liturgie diciamo di tenere lo sguardo fisso su Gesù, che è altro dal dire di tenere lo sguardo fisso verso il cielo… A volte le nostre comunità, e anche le nostre vite, sono molto asfittiche nonostante si abbia questi occhi puntati verso il cielo. Come mai?
Non è quello che interessa Gesù: perché state a guardare il cielo? Dovete abbassare gli occhi e rendervi conto che Gesù è possibile nell’orizzonte della vostra storia, perché quello che vi è chiesto è di fare in modo che fra terra e cielo non ci sia più separazione. Siete voi il cielo di Dio.
C’è un grande poeta che dice: “Il cielo non è altro che la terra denudata da tutta la sporcizia che gli uomini hanno fatto in questi secoli”… il cielo è la terra spogliata della sporcizia.
Quello che noi dobbiamo recuperare è l’obbedienza alla terra, la capacità di abbassare il nostro sguardo. Gesù ha bisogno di questo. Se non c’è questo, Dio non può fare altro. Hai voglia a richiamare “dacci questo, dacci quest’altro”; non è che Dio non ascolta, Dio non può. Ce l’hai già tra le mani la possibilità; dipende da te! E Dio è amaramente fedele a questo mandato, perché questo è il mandato vero.
“Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). È questa la testimonianza di questa fedeltà, di questa possibilità.
Mica si penserà che la MISSIONE è andare a portare il Verbo di Dio nel mondo? La missione non ha bisogno di questo ma di portare questa grande fedeltà, questa compagnia profonda, che parla di Dio molto più di tantissime altre cose.
La compassione (patire-con) dovrebbe essere il tradurre in maniera diversa questa follia di Dio per l’uomo, che io avrei scritto: la follia di Dio con l’uomo. Gesù si chiama anche l’Emmanuele, il Dio con noi.
Le nostre comunità cristiane sono ferme al Dio (se va bene) PER noi. Eh no! Già Isaia dice: “La vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele” (7,14), il Dio CON noi. Le nostre dovrebbero essere comunità “dell’Emmanuele” (non inventiamo nulla, esistono già). Questo dovrebbe essere costitutivo, è questa la follia. Questa cosa sarebbe tremendamente rivoluzionaria rispetto ad un contesto storico come quello di oggi.
A noi piace tanto essere maggioranza; abbiamo molta paura della minoranza. Ma Dio ha sempre proposto la minoranza, che non vuol dire essere minoritari (cioè essere da meno degli altri) ma essere minoranza e goderne.
Un Dio “perdente”… anche Turoldo diceva che si può essere perdenti; l’importante è non essere perduti. Le nostre comunità ci parlano di un Dio perdente, di un Dio debole, di un Dio nudo, di un Dio con… E noi di conseguenza ci “ribelliamo” e quindi diventiamo “obbedienti alla rovescia” di questo Dio quando nelle nostre comunità, nei nostri gruppi ci viene sfornato invece un Dio imprigionato, un Dio assoluto, un Dio staccato, un Dio distante. Un Dio “certo”, un Dio che ti mette anche al sicuro ma che non ti fa vivere.
Come mai c’è uno scarto così grande tra quello che Dio ci chiede e quello che poi concretamente si vive, si vede e si pratica nelle nostre comunità? Se teologicamente la Rivelazione è compiuta non possiamo pensare che un’altra volta Dio debba riscendere a compiere questa cosa.
In questi duemila anni le nostre comunità hanno rischiato di travisare (e qualche volta lo hanno proprio travisato) il sogno di Dio per l’umanità. Cosa c’è che non va?
Questo Dio, che io chiamerei libero e liberante, che non si scomoda ma sente, per esuberanza d’amore, di poter giocarsi nel perdersi con l’umanità, cosa chiede a noi? A noi come soggetto collettivo, come soggetto plurale. In Giovanni il “noi” indica la comunità in modo chiaro e netto.
Prendiamo una pagina del Vangelo per rileggere la storia della nostra comunità e vedere quello che Dio sogna per le comunità. Sulle prime due righe della parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-30) ci può stare una buona rilettura di che cosa può essere, più che fare, prima di tutto una buona comunità.
A Gesù nel Vangelo vengono poste due tipi di domande: 1) per tendergli un’insidia (così diverse dalle domande che Dio fa all’uomo nella Bibbia), 2) per giustificarsi, che è il mestiere più comune dell’essere umano; il porsi sulla difensiva che è veramente l’antitesi del Vangelo.
Io preferisco un bel nemico all’indifferenza degli onesti e a chi sta sempre un po’ così.
In questo caso la domanda è di chi tende a giustificarsi. Incomincia così: Ma quegli, (un dottore della legge) volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”. A me basta così; questa per me è la Chiesa. E ora provo a spiegarvelo.
La comunità che sogna Gesù è un uomo, non un titolo, non un ruolo. È un uomo, un volto, una persona, una storia – mettetela al plurale se volete – sono degli uomini, delle donne, dei volti. Che cosa fanno questi uomini? Scendeva da Gerusalemme a Gerico. Gerusalemme biblicamente è la città di Dio; in questo caso è la città dove Gesù consumerà la sua morte; è la città che trama la morte di Gesù. È la città del potere religioso che è connivente con il potere imperiale, con il potere farisaico anche, che era un potere che stava un po’ nel mezzo tra il potere religioso e imperiale.
La Chiesa, la comunità è un uomo, sono dei volti, delle persone. Dopo si parla di sacerdoti, di leviti: di ruoli. Ma prima si parla di un uomo, e nemmeno di un tale, che è invece l’uomo qualunque che è già una denuncia di una pochezza, di una capacità di essere riconosciuto come tale cioè come persona con un nome.
È un uomo che non ha un nome, come Dio. Noi lo chiamiamo Dio ma Dio non ha un nome. Dio stesso dice: Io sono solo colui che sono.
Mosè è un po’ preoccupatuccio perché Dio lo manda dal faraone. Di fronte al potente ci vuole uno accreditato. Chi gli dico che mi manda? E non è che Dio lo aiuta molto perché gli dice: Digli che ti manda Io sono colui che sono. Il faraone è paradigmatico nella Bibbia, è il dio da cui dovremmo liberarci, è l’idolatria.
Sembra quasi che Dio si accorga del rinculo di sofferenza di Mosè che non vorrebbe disturbare ulteriormente. Allora c’è questa delicatezza di Dio, che diventa però una rinnovata responsabilità in mano a Mosè e gli dice: Digli che ti manda il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dei tuoi padri.
Qual è il nome di Dio? Il nome che allora Dio ha dato a se stesso? È il nome dei padri di Mosè, il nome di suo padre, il nome di mio padre, di sua madre, di tuo fratello. Dio non porta nessun nome perché ha il nome delle persone che incontri. Dio è una parola ebraica intraducibile (è un tetragramma) perché Dio stesso sembra quasi voler fare in modo che in quella casella – che rischierebbe di rimanere vuota – tu ci possa mettere il volto, la storia, il nome della persona che hai a cuore. Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe che viene a te.
Cosa fa quest’uomo? Questi uomini che sono persone, non sono categorie, non sono ruoli.
Scendono da Gerusalemme, la città sacra, la città connivente, la fortezza, la città del tempio, il luogo delle certezze, delle sicurezze assolute. Scendono da Gerusalemme a Gerico.
Gerico è la città del commercio, della confusione. Era la babele commerciale di allora, il luogo dell’incontro, della contaminazione, del meticciato. Dove c’è il rischio di perdere Dio, di smarrirlo nelle pieghe della storia. Dove c’è anche il rischio che Dio possa diventare, come diventa in realtà dove io vivo, un sovrappiù.
Questo è la Chiesa: una Chiesa che cammina, una comunità che si mette in cammino. La Pasqua è passaggio (Erri De Luca), muoversi da, è passare all’altra riva; Gesù fa sempre così nel Vangelo. È scendere da Gerusalemme a Gerico, è fare una strada che ti muove dalle tue sicurezze, dalle tue certezze per andare là dove si vive la storia, dove rischi anche forse di non parlare più di Dio. Sarà un problema per te?
Capite che è una Chiesa che si può fare benissimo, una realtà che può essere benissimo minoranza, che si può benissimo mescolare, anzi che geneticamente – nel suo DNA – dovrebbe avere questa dimensione. Non è un atto secondo: ho capito che Dio è con me, allora io posso… da cui sempre questo rapporto dall’alto verso il basso. È un uomo che scende.
Però si può scendere in tanti modi: certo se uno incappa nei briganti, lo spogliano, lo lasciano lì mezzo morto, vuol dire che quello scendere provoca. Allora una comunità “che scende”, già nello scendere, nel camminare provoca, disturba, probabilmente sarà perseguitata perché se no si potrebbe accettare la beatitudine “Beati voi quando vi perseguiteranno, vi insulteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia: rallegratevi ed esultate”. Noi da buoni cristiani diciamo: eh sì, tanto poi c’è Dio che ci ricompensa. Che senso avrebbe la beatitudine; Beati voi vuol dire felici voi, nella grazia di Dio voi quando…, felici e pieni quando…
La comunità è qualche cosa che si deve sempre spostare in avanti e qui teologicamente direi che dobbiamo spogliarci di quell’ecclesiocentrismo latente che è dentro di noi. Che nessuno di noi muova un passo con qualche d’un altro perché deve difendere la Chiesa. Non ce n’è bisogno.
Noi dobbiamo recuperare la dimensione regnocentrica: il centro del messaggio di Gesù, del sogno di Dio per il mondo è il regno, e Dio è la pienezza dell’esistere. Chi tende a difendere la propria fortezza non si lascia provocare dalla storia. Le nostre comunità non si indignano più. L’altro elemento costitutivo dell’essere comunità è indignarsi.
Noi si parla di conversione: la conversione è diventata un piagnisteo religioso perché a uno gli si sommuove il cuore, ha visto Dio ed è tutto contento… e quella la chiamiamo conversione. La conversione è un cambiare direzione, è uno svoltare. C’è una parola che si avvicina moltissimo a conversione ed è sovversione, anche se c’è una grossa differenza. Quali scheletri si possono tirare fuori dagli armadi a questo punto? Camilo Torres, Che Guevara, i ribelli del Sud, i No Global? Sembra come con la nonviolenza; ma il Vangelo ce l’ha detto prima di tutti questi.
Dio spoglia se stesso perché è indignato da quell’ingiustizia che si continua a perpetuare nella storia e non lo può accettare. I suoi figli e le sue figlie non sono liberi, sono schiacciati e oppressi.
È cominciata con l’Esodo questa storia, e prima ancora dell’Esodo.
A noi ci fa paura declinare la vita e la storia così. Le nostre comunità dovrebbero essere le prime, non quelle che si accodano. Le prime a dire che così non va, ed essere segno luminoso.
È certo che poi incappi nei briganti. La Chiesa che denuncia è una Chiesa profetica, la Chiesa che denuncia è una Chiesa che evangelizza. Una comunità che denuncia con la propria vita l’oppressione del mondo e delle persone, dei fratelli e delle sorelle che sono nel mondo è una comunità in cammino.
Vi propongo un’altra immagine biblica dal Vangelo di Giovanni: la resurrezione di Lazzaro (Gv 11,21-44). Marta disse a Gesù: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”. Gesù le disse: “Tuo fratello risusciterà”. Gli rispose Marta: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”. Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?”.
Si potrebbe dire: che sapienza è mai questa, guarda che Gesù potente! Ma dopo queste parole, che sembrano quasi un atto di rimprovero a Marta e Maria che non fanno altro che dirgli: sei così grande; se tu ci fossi stato non sarebbe successo (sono le parole di tutti noi, dell’uomo e della donna comune), Gesù guarda la tomba e piange.
Gesù allora, quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto.
Se volevano far marketing su Gesù potente potevano anche non metterla questa cosa. Il Vangelo a prezzo di marketing è veramente pessimo, anzi continuamente mette queste pennellate straordinarie.
Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra. Disse Gesù: “Togliete la pietra!”. Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni”. Le disse Gesù: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”.Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. E, detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”.
Ci sono tre espressioni di Gesù che sono le tre dimensioni di una comunità che si possono leggere personalmente per ognuno di noi, ma soprattutto come esperienza insieme.
Di fronte all’amico morto, al “sogno di una cosa” (come direbbe Karl Marx, ripreso da Ernesto Balducci), di fronte all’amico morto che è il sogno di qualcosa che muore, che è quella speranza vuota che a volte accompagna anche le nostre comunità, quelle gravidanze isteriche, quelle emozioni facili, quelle nostalgie senza speranza vera che a volte muovono le nostre comunità e anche le nostre famiglie, Gesù ha tre espressioni fantastiche.
1) Togliete la pietra. Si può leggere in due modi per noi.
a) La pietra della sfiducia, del “tanto non cambierà mai nulla” che a volte diventa rassegnazione e poi si trasforma in indifferenza, e poi ancora in inedia. (Quando ero piccolo padre Pesce mi diceva sempre: “Vedo delle macchioline! Puliamo queste macchioline”. Se lo si legge in questo modo “togliete la pietra”, togliete il peccato perché se no poi Gesù… non ti fa vivere).
b) Scuotersi dalla pesantezza e aprire un varco. Sempre padre Balducci direbbe: riconoscere che in te c’è un homo absconditus, un uomo nascosto e la tua parabola è l’esistenza perché possa emergere quell’uomo inedito che è dentro di te.
Non è “togli la pietra” ma al plurale “togliete la pietra”. La vera eucarestia nel Vangelo è la moltiplicazione dei pani e dei pesci; hanno fame, fateli sedere a piccoli gruppi di cinquanta (le comunità), sull’erba, dategli voi stessi da mangiare. I cinque pani e due pesci spezzateli e dateli da mangiare.
Non è: eh se avessimo saputo, eh se avessimo potuto, se ci fosse stato lui… ma togliete la pietra!
Marta e Maria insistono: è morto da tre giorni, manda già cattivo odore.
Allora togliamola questa pietra, apriamoli questi varchi! Voglio dire: aprite i vostri portoni, aprite le vostre case, lasciate libero accesso.
Le nostre comunità hanno delle pietre enormi. La pietra può essere la soglia da varcare, il campanile; può essere anche la bella preghiera che esclude, può essere anche l’atto di carità, può essere anche il gruppo missionario.
2) Lazzaro vieni fuori. Questa volta è il tu, è col nome. Mica dice il nome della vostra parrocchia o della vostra comunità. “Vieni fuori” è l’imperativo categorico, non kantiano, evangelico. È l’imperativo di Gesù, poi per forza Gesù piange ma con un amaro enorme; è secoli che lo ripete. In questo caso impazzisce, ma in senso negativo.
Ma come faccio, dove vado?… esci fuori! Vi sfido a trovare nel Vangelo qualcosa che non parli di questo uscire fuori. Dove muore Gesù? Fuori le mura. Quando Gesù fa i miracoli conduce fuori, in disparte il cieco, il sordomuto.
Per noi fuori vuol dire in disparte a pregare sul monte Carmelo, ma non è soltanto questo. Vuol dire fuori dalle ristrettezze, dalle nostre sicurezze, dai nostri luoghi scontati. Fuori dai nostri assoluti. Dio si fa relazione. L’uomo è e si compie nella relazione (Martin Buber, Il cammino dell’uomo). Se non si esce fuori non succede niente.
3) Scioglietelo e lasciatelo andare. È al presente, è un’istanza missionaria. Nella preghiera del crisma del battesimo si dice che quel bambino diventa sacerdote, re e profeta. Scioglietelo e lasciatelo andare; ogni uomo col battesimo diventa profeta, capace di vedere l’oltre della storia. La profezia è necessaria in questa storia. Ogni uomo è sacerdote: (grazie al cielo siamo in compagnia) è addetto alle cose sacre, è capace di rendere le cose sacre. Don Lorenzo Milani direbbe “cittadino sovrano”, un uomo e una donna capaci di darsi gli strumenti per declinare la propria vita. È la grande libertà di Dio, è la grande libertà dei figli di Dio. Scioglietelo e lasciatelo andare, libero, sciolto.
Tutto questo rimanda a comunità che fanno delle scelte profondamente etiche e stili di vita assolutamente necessari nell’ordine della giustizia.
Allora propongo due direttrici etiche fondamentali che si devono incrociare nell’essere comunità: l’etica della prossimità e l’etica della responsabilità. Se queste due etiche non si incrociano noi facciamo comunità asfittiche, morte, che non incidono, che non coltivano il sogno di Dio.
L’etica della prossimità vuol dire fare quello che fa il Samaritano: avere compassione e prendersi cura di; vuol dire mettersi accanto, fare compagnia.
L’etica della responsabilità, legata a quella della prossimità, è condizione imprescindibile dell’essere comunità. Come riferimento biblico vi do la lettera alla Chiesa di Laodicea (Ap 3,15-16) “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”.
È la connivenza con la neutralità, col non sporcarsi le mani, col non uscire neanche una spanna da quella logica di prudenza che sembra sempre difendere tutto e tutti. Questa assoluta incapacità di schierarsi che è un tradimento enorme del sogno di Dio per la storia umana. Dio si schiera; lo fa proprio con Mosè, quando Mosè vuole fare il rivoluzionario al roveto ardente (Es 3).
Dio dal fuoco ardente chiama Mosè, lo fa uscire fuori dalla situazione in cui si era messo, di pastore tranquillo, protetto dal sacerdote di Madian. Dio lo chiama e Mosè va verso il fuoco e subito dopo – guardate la contraddizione – gli dice: “Non avvicinarti, ma – ecco ora un altro imperativo – togliti i sandali dai piedi perché il luogo che stai calpestando è luogo sacro”. Dio in quel momento si schiera ma dice anche a Mosè come deve muoversi.
Non dice: “Non ti muovere, stai attento…”; gli dice come si deve muovere: a piedi nudi. È una delle prime istanze nonviolente, è uno dei primi momenti in cui Dio indica a Mosè che anche lo spazio che c’è tra me e l’altro, tra me e l’oppressore è comunque spazio sacro, spazio da coltivare.
Ci dice di essere senza sandali, senza scarpe ai piedi: togliti i sandali dai piedi! Ma non raccontiamoci fandonie sul fatto che la comunità deve essere una comunità che non si schiera! La comunità che non si schiera è una comunità che tradisce Dio (magari tu fossi freddo o caldo… ma poiché sei tiepido, poiché non c’è profezia, non c’è capacità di gridare l’oppressione che vedi, che incontri, che senti – di schierarti – io sto per vomitarti dalla mia bocca). Tu dici: sono ricco, mi sono arricchito… come noi: “Sto tanto bene… Ho trovato un posto… Il prete giusto… Le persone giuste… Si fa delle belle cosine… Si sta tanto bene insieme… Ho scoperto il Comboni… si va a fare viaggi missionari” dipende il vostro caso, ma vi potrei dire della mia realtà, qualunque sia. Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla! Che è il peccato dell’essere umano per eccellenza: “Fare a meno di…” Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo.
Gesù poi va avanti e dice: “Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”.
Ritornando a questa capacità di costruire comunità che si sanno schierare. Ma ce lo ha detto anche la Chiesa: che cos’è l’opzione preferenziale per i poveri? Che è ancora fin troppo debole… ma magari!… Per lo meno fosse già praticata quella!…
Ai poveri avrei sostituito un’altra parola, perché poi con il povero si rischia di travisare il poverino… di dargli assistenza…
Il povero può essere anche ognuno di noi, chi subisce un’ingiustizia, chi è nell’oppressione.
Opzione preferenziale è una scelta, uno schierarsi, un mettersi da una parte: Gesù sceglie la Galilea. Le nostre comunità (prego di essere smentito) non riescono a incidere su questo punto di vista. E questa è l’etica della responsabilità: di sentire che ognuno di noi è responsabile di quell’ingiustizia.
Dal momento in cui si omologa il sistema, le nostre chiese, le nostre comunità – quando diventano così buoniste – sono una Chiesa che si omologa e che diventa strumentale al sistema: è una Chiesa che va benissimo al faraone, gli va benissimo… anzi, e più si infioretta di buone intenzioni, di belle cosine, e più gli va bene. Le “operazioni bontà” stile Dash più ce n’è e meglio è! Ma dobbiamo dircelo, e non può esistere in questo caso, in un’opzione di fondo il male minore: meglio che nulla, NULLA! Meglio che nulla assumiti le tue responsabilità e tu perlomeno che dici meglio di nulla non accettare quello e schierati da una parte, mettiti in gioco te. Non puoi accettare compromessi! Perché non è “meglio che nulla…” perché ricrei un sistema di sudditanza e di morte, che è quello da cui Dio ha risvegliato il popolo che si era adattato alla schiavitù. È così! Per questo gli stili di vita sono importanti, non è che tu faccia cose eclatanti, stili di vita che passano dalla responsabilità che tu hai. Perché qualcuno di noi o delle nostre comunità non sono capaci di chiedere perdono… per dove mettono i loro soldi… ma quanti soldi mettiamo…? Oggi! Qui! Le nostre comunità! In banche che sono armate! Questa responsabilità grossa è un atto di ingiustizia e poi che si va a predicare: la giustizia?
Casaldaliga direbbe che le sette caratteristiche di un popolo nuovo, di una comunità nuova potrebbero essere queste: la lucidità critica, quella che si chiamerebbe in parole povere la coscientizzazione, l’essere critici, la capacità di avere gli strumenti per leggere la realtà; la seconda (che è molto latino-americana): la contemplazione sulla marcia (marcia = senso di cammino) che è stare attenti all’efficientismo tradotto nel nostro linguaggio occidentale; la libertà dei poveri (che è lo “scioglietelo e lasciatelo andare”); la solidarietà fraterna, la fraternità (che non è l’ugualitarismo né l’omologazione); la croce della conflittualità: anche il Vangelo dice ad un certo punto “non sono venuto a portare la pace sulla terra”; l’insurrezione evangelica; l’ostinata speranza pasquale (perché comunque bisogna essere nella gioia).
Questo è ciò che mi è venuto in mente e sul quale si potrebbe pensare per una comunità eversiva, alternativa, resistente, sovversiva, necessaria. Unica comunità possibile per rendere il Vangelo pratica quotidiana, per restituire il sogno di Dio alla storia. Con molta tenerezza ma nella responsabilità che abbiamo un impegno profondo, che non è soltanto quello di mettere una pacca sulla spalla, ma di cambiare il verso delle cose. Per noi e per questo mondo, con un’indignazione che sale dal profondo.
Per cercare anche di rispondere alla vostra domanda: “Fino a che punto dobbiamo arrivare?” Se il mio schierarmi rischia di provocare esclusione, quanto vale la pena? Fino a che punto? Io una risposta ce l’avrei, è una risposta che diventa anche pratica quotidiana là dove viviamo: ciò che provoca morte è comunque da rifiutare, e allora se un sistema è un sistema di morte è un sistema che io non posso accettare. Cioè Dio non può stare… la Chiesa, se vogliamo andare sul concreto, non può benedire la portaerei nuova, deve fare un atto di disobbedienza, che è un atto di obbedienza a Dio, al Vangelo e a quello che quel Dio, quel Vangelo chiede, perché quella cosa provoca morte. Questo non vuol dire che allora io non stringerò più la mano a… ma vuol dire che io marcherò una distanza rispetto a quello che lui ha vissuto, e questa distanza è un dovere imprescindibile di uno che tenta di essere cristiano. Su questo, secondo me, non ci sono sconti, per nessuno! E dico: per nessuno! In nome di quella responsabilità – etica della responsabilità – e qui potrei suggerirvi quel grande filosofo ebreo, che è Hans Jonas, che ha scritto un grande libro “Il principio responsabilità” ed un altro “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” in cui si evidenziano connivenze insopportabili, per cui dovremmo lavare i panni per secoli. In questo libro si dice che ognuno di noi avrà diritto e dovere, nello stesso tempo, di schierarsi dalla parte dell’oppresso e di chi è schiacciato, nel momento in cui si sentirà lui stesso responsabile di quello che avviene. Dev’essere chiaro. Perché è troppo facile schierarsi mettendosi fuori da qualche cosa che anche te, con le tue contraddizioni, usi, utilizzi e in cui sei immerso.
Perché questo possa avvenire, e questa responsabilità si possa sentire, ritorno a questa istanza profonda della Bibbia che è il togliersi i sandali dai piedi. È una radicalità ma nel senso di “mettere radici” nelle cose che viviamo: mettersi nei panni di chi vive quell’oppressione.
Un grande pedagogista brasiliano, Paulo Freire, ne “La pedagogia degli oppressi” dice che molto spesso l’oppresso assume (prende su di sé) il linguaggio e la mentalità dell’oppressore, e nella sua apparente emancipazione (superamento dell’oppressione) – ed è un meccanismo che chi sta con i poveri sa che esiste – diventa a sua volta oppressore. Anche il Vangelo dice così nella parabola del servo spietato (Mt 18,23-35). Il padrone concede tempo al servo che va a piangere che non può pagare. Poi lui non perdona il servo che sta sotto di lui (l’oppresso alla seconda), perché acquisisce la mentalità. E il padrone a quel punto lo condanna.
Chi cerca di mettere in pratica il Vangelo nelle sue azioni quotidiane, nella sua associazione, movimento, gruppo, realtà, comunità deve stare molto attento che non si inneschi questo meccanismo perché questo è veramente pericoloso.
Perché questo si possa evitare ci sono due condizioni: 1) Togliersi i sandali dai piedi e 2) rialfabetizzare le persone all’essere pienamente uomini, pienamente capaci, come direbbe il Catechismo della Chiesa Cattolica, nel primo capitolo: homo est capax Dei, l’uomo è capace di Dio.
Vuol dire dare all’uomo gli strumenti per potere lui, con la tua compagnia, liberarsi dall’oppressione. Fare in modo che lui poi possa scegliere da che parte schierarsi con quegli strumenti di libertà che tu, con l’unico dovere che hai di mettergli in campo, se hai il dono della parola gli consegni, e poi lasciarlo andare.
Queste cose fanno così fatica a passare perché non le mastichiamo tutti i giorni e non accettiamo di essere perdenti, perché ci hanno abituato ad una Chiesa trionfante. Invece è un Dio “delle piccole cose” – come direbbe Arundhati Roy – quel Dio che lascia le tracce nella semplicità del quotidiano, però con la capacità di spogliarsi.
Il profeta Michea, che abbiamo letto in questa settimana, dice che tre sono le cose che devi fare: amare la pietà, praticare la giustizia, camminare umilmente con il tuo Dio. Amare la pietà spesso l’abbiamo trasformato in un buon fioretto e ci siamo dimenticati della pratica profonda della condivisione, l’amare la compagnia, lo stare insieme. Camminare umilmente con il tuo Dio l’abbiamo trasformato in una relazione molto verticale, con un sacco di veli e di sovrastrutture. Praticare la giustizia, quando va bene, l’abbiamo fatto diventare un grande sermone. Siccome giustizia ed economia toccano profondamente la nostra quotidianità, il nostro portafoglio, i nostri comportamenti quotidiani, noi svicoliamo sempre e siamo pronti a fare (questo da sinistra, da destra e dal centro) tutti gli svicolamenti possibili.
Praticare la giustizia vuol dire “abitarla”, starci dentro; vuol dire considerarla il cuore, il centro. Allora non sarai tu che butterai fuori l’ingiusto. Ma se la giustizia è praticata, colui che è ingiusto, che provoca morte, non passerà quella soglia. Il mio problema è che troppa gente, senza nessun problema, senza nessun disagio, (magari avesse qualche disagio…) entra in chiesa.
Io vedo gente a volte a testa bassa perché magari ha fatto le corna alla moglie e, forse ancora per qualche retaggio culturale, è un po’ turbato all’idea di entrare in chiesa pulito.
Ma c’è qualcuno che si sente a disagio nell’entrare nelle nostre chiese quando pratica la morte? L’ingiustizia tutti i giorni nei suoi atteggiamenti? Allora qui conta molto il respiro delle cose: è la “sovversione”, la conversione che dovrebbe abitare le nostre comunità. Che non dovrebbe spingermi a dire: “No, te non ci puoi entrare” (anche questo è biblico) ma dovrebbe far dire all’altro: “Io non posso entrare”. Come mai non succede? Perché io non funziono, tu non funzioni. Perché non si pratica la giustizia? Perché tutti noi, comunque, che avremmo voglia di puntare il dito contro il nostro ingiusto di turno, abbiamo delle cose, dei panni sporchi da lavare in Arno.
Bisogna invece che le nostre comunità respirino in questo modo, abbiano questo sapore. I ragazzi quando entrano al Centro sociale delle Piagge devono sentirsi “disturbati”; quel posto deve fargli dire: “Maremma, come siamo acquiescenti!”, “Per la miseria, come dormiamo!”, “Maremma, ma qui non si fa altro che pensare a fare bischerate e basta!” (detto molto alla toscana). E quindi non che diventi il luogo dell’esclusione ma luogo che accoglie tutti (pandocheion). Che non accoglie tutti rimanendo neutrale ma dando una visione giusta delle cose.
Questa è una comunità profetica che fa profezia nell’oggi di questa storia. Dove l’oppressore di turno, arrivando alle Piagge dovrebbe dire: “Questo posto non fa per me!”. Io sarei contento perché vuol dire che col nostro agire abbiamo marcato questa distanza. Ma non andrò mai a casa sua a dire: togli il crocifisso dalla stanza perché non sei degno di tenerlo dentro casa. Ma fai pure!…
Però in questa realtà, quando metti i piedi, devi sentirti chiamato a conversione rispetto a quello che tu vivi; tu che sei patentemente nell’ingiustizia e io che sono ovattato di giustizia ma quanto te, con la stessa responsabilità, anche se a livelli diversi, sono compromesso come te.
Questo vale anche per il signor prete e per tutti i centri di potere di turno.
PADRE ARNALDO DE VIDI
(Direttore di CEM Mondialità)
PLANETARIZZAZIONE, GLOBALIZZAZIONE E MONDIALITÀ
A. PLANETARIZZAZIONE
Planetarizzazione è un neologismo che ho scelto per questa occasione in mancanza di un altro termine più semplice. Con esso voglio significare il fenomeno in atto che rende il nostro pianeta “piccolo e interdipendente”. Questo fenomeno è un dato di fatto e precede quello chiamato “globalizzazione”.
La casa del mondo. Negli anni ’60, Martin Luther King parlava di vicinato planetario: “Abbiamo ereditato una larga casa, una grande casa che è il mondo, nella quale dobbiamo vivere insieme – neri e bianchi, occidentali e orientali, giudei e gentili, cattolici e protestanti, musulmani e indù – una famiglia indebitamente separata in idee, culture e interessi; una famiglia che, giacché noi non possiamo più di nuovo vivere appartati, deve imparare a vivere in pace insieme… Tutti gli abitanti del globo sono ora vicini di casa”.
M. L. King aggiungeva: “Non vi siete mai fermati a pensare che non potete neppure andare al lavoro al mattino senza dichiarare la vostra dipendenza da tutto il mondo? Vi alzate, fate le vostre pulizie afferrando la spugna, e questa vi viene portata da un indigeno del Pacifico. Prendete il sapone, e questo vi viene dato dalla mano di un francese. Passate in cucina a bere un caffè, e vi viene versato nella tazzina da un sudamericano; o forse preferite il tè, e vi viene offerto da un cinese; o ancora desiderate cioccolato, ed è un africano che ve lo offre. [...] Prima ancora di finire la vostra colazione, vi siete già messi in contatto con metà del mondo”.
M. L. King saluta l’interdipendenza planetaria come un fenomeno altamente positivo e impegnativo. “Negli Stati Uniti spendiamo ogni giorno milioni di dollari per immagazzinare una eccedenza di generi alimentari; e mi dissi: io saprei dove immagazzinare gratis tutti i generi alimentari: nello stomaco di milioni di figli di Dio in Asia, in Africa, nell’America Latina, e anche negli Stati Uniti, dovunque c’è gente che va a letto affamata. In fin dei conti si tratta di questo: la vita è un insieme di interrelazioni. Siamo legati da una rete di comunità, vestiti dello stesso abito del nostro destino. Tutto ciò che colpisce uno direttamente, colpisce tutti indirettamente. Siamo fatti per vivere insieme: la nostra realtà è intercomunicante. Il nostro universo è strutturato così, e non riusciremo a raggiungere la pace interna finché non avremo riconosciuto questo fatto basilare della struttura interdipendente di ogni realtà”.
I figli della televisione. Nello stesso periodo Marshall McLuhan parlava di “villaggio globale”: “I circuiti elettrici hanno rovesciato il regime del ‘tempo’ e dello ‘spazio’ e riversano su di voi istantaneamente e continuamente le preoccupazioni di tutti gli altri uomini. Hanno ricostruito il dialogo su scala globale. Il loro messaggio è la Trasformazione Totale, che mette fine al parrocchialismo psichico, sociale, economico e politico. I vecchi raggruppamenti comunali, provinciali e statali non funzionano più. Nulla potrebbe essere più lontano dallo spirito della nuova tecnologia che il motto un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto. Non si può più tornare a casa”.
McLuhan sottolinea quanto il fenomeno di “globalità mediatica” sia positivo: “La generazione dei figli della televisione è più seria dei figli di qualunque altra generazione, meno sperduta, meno assurda. Il ragazzo formato nell’era della televisione è più onesto, aperto e impegnato… Una tecnologia completamente nuova, sensoria, non lineare, ha provocato (non il programma, il mezzo) un coinvolgimento totale. Il circuito elettronico ha distrutto il regime dello spazio e del tempo e butta addosso a tutti noi, istantaneamente e continuamente, la vita di tutti gli altri uomini. I giovani istintivamente capiscono il coinvolgimento totale in cui sono immersi, lo vivono miticamente e in profondità. Questa è la ragione dello spacco vasto e insolito fra le generazioni. Sta emergendo una nuova forma di politica, secondo modi che non sono stati ancora avvertiti. In casa, la sala di soggiorno è diventata una cabina elettorale. La partecipazione a mezzo TV alle Marce della Pace, alle guerre, alle rivoluzioni, all’inquinamento atmosferico e agli altri eventi d’attualità, sta mutando ogni cosa”.
Qualcosa non ha funzionato. Dobbiamo riconoscerlo. I “figli della televisione” non sono più seri e onesti di quelli delle altre generazioni, come invece aveva ipotizzato McLuhan, forse per colpa della “Maga Circe” Tv che ci rende animali nutrendoci di immondezze.
La planetarizzazione non ci è pervenuta libera da “vizi” che ci lasciano molto perplessi. Sempre sulla scorta di pensatori degli anni ’60, accenniamo a: individualismo, istinto sociale (massificante), robotismo…
L’individualismo. “Fu l’individualismo a costituire l’ideologia e la struttura dominante della società borghese occidentale tra il XVIII ed il XIX secolo. Un uomo astratto, senza relazioni o legami con la natura, dio sovrano in seno a una libertà senza direzione e senza misura, che subito manifesta verso gli altri diffidenza, calcolo, rivendicazione; istituzioni ridotte ad assicurare la convivenza reciproca degli egoismi, o a trarne il massimo rendimento associandoli tra loro in funzione del profitto: ecco il tipo di società che sta agonizzando sotto i nostri occhi, uno dei più miseri che la storia abbia conosciuto” (Emmanuel Mounier).
Automatizzazione. “Nel diciannovesimo secolo il problema era: Dio è morto; nel ventesimo secolo è questo: è morto l’uomo. Nel diciannovesimo secolo inumanità voleva dire crudeltà; nel ventesimo secolo vuol dire autoalienazione schizoide. Il pericolo del passato era che gli uomini diventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che gli uomini possano diventare robot” (Erich Fromm).
B. GLOBALIZZAZIONE
Globalizzazione (termine – dall’inglese globe – usato per la prima volta da Theodore Levitt nel 1985) o mondializzazione (dal francese monde) non è sinonimo di planetarizzazione. È nata come creazione di un’economia mondiale per mezzo della liberalizzazione dei processi d’investimento e dei flussi commerciali. È un balzo in avanti rispetto all’internazionalizzazione e alla multinazionalizzazione. Globalizzazione è poi passata a significare il sistema dominante attuale, il capitalismo neo-liberale, mondiale, ancorato al mercato. Ciascuno spiega la globalizzazione come lui meglio l’intende (e secondo la sua ermeneutica). Per noi, con base nei fatti, la globalizzazione è alla confluenza di tre fenomeni: sviluppo unico, mercato globale e flusso dei capitali.
1. Pensiero (Sviluppo) unico. Il capitalismo avviò l’idea di sviluppo dell’umanità partendo dal pensiero unico. Sul tema del pensiero unico così ha scritto, in sintesi, Ignacio Ramonet: “Il pensiero unico è la traduzione, in termini ideologici che hanno la pretesa di essere universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, in particolare di quelle del capitalismo internazionale. Esso è stato, per così dire, formulato e definito sin dal 1944, in occasione degli accordi di Bretton-Woods. Le sue fonti principali sono le grandi istituzioni economiche e monetarie [...] le quali, grazie ai loro finanziamenti, arruolano al servizio delle proprie idee, in tutto il pianeta, numerosi centri di ricerca, università e fondazioni che, a loro volta, affinano e diffondono la buona novella. Quest’ultima viene ripresa e riprodotta dai principali organi di informazione economica e segnatamente dalle bibbie degli investitori e degli operatori di Borsa… [...] Un po’ dovunque, le facoltà di scienze economiche, i giornalisti, i saggisti e, per finire, gli uomini politici fanno propri i principali comandamenti di queste nuove tavole della legge e, attraverso i grandi mezzi di comunicazione di massa, li ripetono a sazietà. Ben sapendo che, nelle nostre società mediatizzate, ripetere equivale a dimostrare”.
La globalizzazione non è qualcosa di periferico, ma un sistema totale, comprensivo del vivere dell’umanità, quasi una religione. Siamo oltre l’aspetto economico o, meglio, tutto è ridotto al denominatore comune dell’economia. Ma in senso stretto, globalizzazione è mercato globale e flusso dei capitali.
2. Mercato globale. I signori della globalizzazione ritengono che è il mercato – come un timoniere – a mostrare la rotta, il cammino all’umanità. Infatti il mercato direbbe la verità sui bisogni, sui prodotti migliori (mettendoli a confronto) e su quelli più a buon mercato. Se ieri c’erano mercati locali, oggi bisogna montare il mercato mondiale, con la duplice finalità di informazione e regolazione sociale.
“I produttori potenziali debbono essere informati circa il tipo e la quantità di beni che sono effettivamente domandati dalla popolazione, i tempi in cui la domanda si distribuisce, il prezzo che i consumatori potenziali sono disposti a sborsare. Questi ultimi, a loro volta, debbono essere informati in ordine al luogo in cui i beni sono disponibili, al momento in cui realmente lo sono, e al loro costo” (Luciano Gallino).
Alla prova del nove del mercato, il capitalismo liberale in mani private sconfisse la via obsoleta del capitalismo di Stato del socialcomunismo. Ergo, la via del capitalismo liberale è l’unica all’altezza della situazione. Che ci salva non è Gesù Cristo, ma il mercato.
“Siamo alla fine della storia”, conclude Francis Fukuyama. Cioè “rallegriamoci perché abbiamo trovato – nel mercato – il sistema migliore in assoluto e quindi siamo arrivati al segmento finale della storia. A prescindere da quanto futuro l’umanità possa avere, non si prevedono sviluppi in meglio fino al capolinea. Punto finale”.
L’affermazione è grave di conseguenze. Infatti se ne deduce che si possono al limite tollerare i teppisti, come fenomeno di risacca di una cultura di massa, ma non i contestatori, quali le Comunità di base dell’America Latina o il Genoa Social Forum. Chi contesta è pazzo o criminale, quindi merita il manicomio o la prigione.
3. Flusso dei capitali. I signori della globalizzazione si sono detti: “Vanno e vengono liberamente idee-notizie, persone e prodotti, perché non liberare anche il movimento del denaro?”.
È ciò che avviene in particolare col cyber-mercato. “Il cyber-mercato è un sistema informativo che opera ad altissima velocità e densità di messaggi, e a elevata frequenza di registrazioni durevoli. Un istante dopo essere state diffuse da Rio o da Londra, le medesime informazioni circa le quotazioni del caffè o del franco svizzero compaiono simultaneamente sullo schermo dei computer di Sydney, di Miami e di Monaco di Baviera. Parimenti rapida deve essere la reazione degli operatori che sulla base di tali informazioni intendono trarre un profitto, o evitare perdite” (L. Gallino).
La globalizzazione come flusso dei capitali è stata possibile grazie al livello raggiunto dalla comunicazione. Si sono uniti due sistemi nervosi della società moderna: quello dei mercati finanziari e quello della rete di comunicazione. Col risultato dell’indifferenza spaziale (il mondo è diventato uno spazio sistemico dove l’economia non è più legata agli spazi geografici) e della simultaneità temporale (i capitali vanno in tempo reale da una borsa all’altra). Grandi professori maneggiano le tecniche di arbitraggio, influendo così sul costo dell’automobile dell’italiano e perfino sul costo del riso-e-fagioli del brasiliano.
Il mercato finanziario o speculativo è cresciuto al punto che 98% dei capitali (reali o virtuali) è investito in esso, mentre solo 2% dei capitali è investito nella produzione.
Qui vogliamo accennare solo a una delle molte conseguenze: il crepuscolo degli Stati-Nazione. Infatti, se sul 98% dei capitali non c’è tassazione, i governi degli Stati-Nazione che volessero organizzare una buona assistenza sociale non possono più farlo, perché dovrebbero tassare troppo pesantemente il 2% dei capitali investiti nella produzione (e rendersi invisi alla popolazione). La conseguenza è l’indebolimento della politica e quindi dello Stato, con lo smantellamento del welfare, con la privatizzazione di servizi come la salute, l’educazione, i trasporti pubblici…
I meriti della globalizzazione? Nelle parole dei protagonisti, la globalizzazione eccelle in efficienza (ma resisterebbe allo sciopero dei volontari e del non-profìt?). Essa eliminerà la povertà (ma intanto ha rimosso il sociale, considerato come una specie di patetica scoria la cui pesantezza sarebbe causa di regresso e di crisi). Garantisce ricchezza, stabilità monetaria e prezzi bassi. Estende teoricamente a tutti le opportunità. Rende superate le ideologie. Aumenta l’offerta di servizi a livello mondiale…
Ma l’“idolatria” del mercato (Centesimus Annus, 40) ha creato una società assurda: ci sono 15% vip (very important persons, o inforicchi, che hanno il capitale e accesso alla finanza con l’informatizzazione); 60% lip (less important persons, le persone che ieri formavano la classe media, ma oggi mediobassa perché c’è meno necessità di lavoratori; gli operai “lavoricchiano”, sono mantenuti occupati perché solo così sono consumatori solventi, grazie al salario); 25% nip (no important persons: consumatori non solventi, esuberi, quelli che rimangono al di sotto del limite della miseria). Inoltre cresce il problema dell’occupazione (sono premiate le imprese che licenziano!). I Paesi del Sud del mondo continuano ad essere sfruttati (per esempio, i prestiti danno al Primo mondo ritorni reali fino ai 20:1!); sono derubati della dignità, invitati a dimenticare le loro culture di sobrietà e obbligati ad inseguire un modello economico costoso fino… alla bancarotta. Acuto e amaro è un commento di Umberto Galimberti in occasione dei fatti di Genova. “Io penso che lo scopo primario del G8 e degli analoghi vertici che periodicamente si tengono per risolvere i problemi del Terzo e Quarto mondo sia quello di conculcare, estinguere e annullare i sentimenti collettivi di giustizia che dovessero sorgere nel Primo mondo. Perché questi sono pericolosi, non le rivendicazioni di chi muore di fame e di malattie nei continenti asiatico e africano, il cui gesto e la cui parola non hanno alcuna rilevanza e alcuna incidenza. Viene da pensare che l’intento dei politici del Primo mondo, semplici rappresentanti formali dei padroni effettivi del mondo, è che la gente del Primo mondo si addormenti nel suo benessere e non si faccia prendere da sentimenti di giustizia “globale” perché, in questo caso, il mercato globale non potrebbe funzionare, e la rivoluzione, sempre in agguato nella storia finché la distribuzione delle ricchezze è così diseguale, potrebbe dissestare gli equilibri che gli uomini “dal sorriso pieno di denti candidi” hanno creato per loro. Il resto del mondo, pieno di fame e di malattie, può tranquillamente attendere. Fino a quando?”. I signori della globalizzazione impongono una sola “narrazione” per la famiglia umana. Vogliono far passare il loro sistema come planetarizzazione tout court e i loro oppositori come balordi isolazionisti. Vogliono far passare i no-global come oscurantisti, superati, sottosviluppati, incapaci di lavorare. (Ma se chi lavora nel non-profìt e nel volontariato e nei lavori umili facesse uno sciopero, cadrebbero anche le multinazionali). Opportunamente Riccardo Petrella afferma che la resistenza alla globalizzazione dovrà necessariamente passare per la costruzione di una narrazione pluralista e la costruzione di piste di trasformazione.
C. MONDIALITÀ
La parola “mondialità” è stata diffusa a livello nazionale proprio dal CEM che l’ha usata fin dagli anni ’60, quand’era un neologismo. Il CEM ha poi dato vita nel 1972 alla rivista CEM Mondialità.
Mondialità vuol dire fratellanza tra i popoli; giustizia e solidarietà; conoscenza della propria identità culturale e incontro fecondo con altre culture, tutte degne di rispetto. In tal senso la mondialità richiede l’interculturalità, che non è omologazione né tolleranza. Si ha quando persone di culture diverse interagiscono. Lo fanno intenzionalmente, dentro di un progetto educativo, frutto di una scelta. Attualmente noi sintetizziamo l’epistemologia e la strategia della mondialità ricorrendo all’espressione, cara a don Tonino Bello, convivialità delle differenze. E parliamo di quattro livelli:
* convivialità delle diversità basilari: sarebbe illusione pensare che si possa fare dialogo religioso e culturale se si ignorano le diversità di genere (m-f), i regionalismi, le intelligenze multiple, l’integrazione della persona con disabilità…;
* convivialità fra le culture: contro la xenofobia di atomismi culturali e contro la mega pseudocultura proposta dalla globalizzazione. Quindi il CEM difende la dignità, il diritto e la ricchezza di ogni cultura e propone un progetto pedagogico interculturale dal momento che l’interculturalità non è fenomeno naturale;
* convivialità delle religioni: contro l’intolleranza religiosa, per “non schiacciare il sogno altrui” e per non dimenticare che “Dio è presente ovunque, prima che il missionario arrivi”;
* convivialità delle responsabilità: si intende qui i valori che il termine “mondialità” include: la pace, lo sviluppo, l’ecologia, i diritti umani. La scuola – con la pedagogia dei gesti – deve trasmettere il senso etico della cittadinanza attiva, della partecipazione al bene comune.
La Commissione Giustizia e Pace ammonisce: “È da richiamarsi la responsabilità dei luoghi e delle forze educative che devono proporre ed aiutare la comprensione delle differenze, passando dalla “cultura dell’indifferenza” alla “cultura della differenza” e da questa alla “convivialità delle differenze” (Educare alla legalità, 13).
McLuhan aveva auspicato una nuova etica: “Si dice che nelle società tribali si nota una reazione comunissima: quando si verifica qualche evento orribile, la gente, invece d’incolpare qualcuno del misfatto, dice: come dev’essere spaventoso sentirsi in quel modo. Tale sensazione è un aspetto della nuova cultura di massa verso la quale ci stiamo avviando: un mondo di partecipazione totale in cui ognuno si sente profondamente coinvolto con tutti gli altri e nessuno può veramente immaginare che cosa sia la colpa privata”.
Sempre negli anni ’60 era famosa una poesia di Max Orkley:
Siamo responsabili di quello che accade,
siamo responsabili del negro linciato perché ha guardato la bianca,
delle bombe che cadono alla periferia di Hanoi,
del partigiano torturato nello stanzone di polizia,
delle dita dell’operaio schiacciate sotto la pressa,
dell’istupidimento di chi sta alla catena,
della sifilide della prostituta,
di tutto il sangue e di tutto il sudore inutile versato per la follia di pochi.
Siamo responsabili di quest’Uomo
colpito, prigioniero, straziato,
asservito, pestato, assassinato,
e a Te dovremo rendere conto,
perché ci hai dato occhi per vedere e mani per agire,
ma noi li abbiamo usati per guardare dentro di noi
e per accarezzare le nostre piaghe.
Fromm aveva suggerito una nuova Onu: “Dobbiamo abbandonare i binari su cui ci muoviamo e fare il passo successivo verso la nascita e l’autorealizzazione dell’umanità.
1. La rimozione della minaccia della guerra che adesso pende su tutti noi e paralizza la fede e l’iniziativa.
2. Dobbiamo assumerci la responsabilità della vita di tutti gli uomini e sviluppare su scala internazionale ciò che tutti i grandi Paesi hanno sviluppato internamente, cioè una relativa divisione delle ricchezze e una nuova e più giusta divisione delle risorse economiche. Questo deve finalmente portare a forme di cooperazione internazionale e di pianificazione, a forme di governo mondiale e al completo disarmo.
3. Dobbiamo conservare il metodo industriale, ma dobbiamo decentrare il lavoro e lo Stato, così da dar loro umane proporzioni, e consentire l’accentramento soltanto sino ad un optimum richiesto dalle esigenze dell’industria.
4. Nella sfera economica abbiamo bisogno della cogestione di tutti quelli che lavorano in un’azienda per permettere la loro partecipazione attiva e responsabile. Le nuove forme di tale partecipazione possono esser trovate.
5. Nella sfera politica dobbiamo ritornare alle assemblee cittadine creando migliaia di piccoli gruppi ristretti che siano ben informati, che discutano e le cui decisioni siano integrate in una nuova camera bassa.
6. Nella sfera culturale dobbiamo combinare l’educazione e il lavoro per i giovani, l’educazione degli adulti e un nuovo sistema di arte popolare e di rituale secolare entro l’intera nazione”.
Continuiamo a credere che “diventare villaggio globale” era fin dall’inizio nel cuore dell’umanità in cammino. Negare la planetarizzazione equivarrebbe a voler fermare la storia. Innestare la “mondialità” nella planetarizzazione è un imperativo. Quindi essa va salutata come un fenomeno provvidenziale: fare del mondo una sola casa e dell’umanità una sola famiglia (senza però omologare o livellare). Anzi bisogna che l’uomo si veda dentro alla casa e non sopra la casa.
“Se nel passato la civiltà e le religioni occidentali hanno guidato la storia sulla via dell’elezione, della distinzione dagli altri popoli e dell’alienazione dalla natura, la via che ci apre al futuro è quella dell’intimità con la terra, nella comunione con ogni creatura, nel mistero della vita che è Dio” (Vittorio Falsina).
PADRE RAFFAELLO SAVOIA
(Incaricato LC e LMC)
SANTITÀ E PAZZIA IN DANIELE COMBONI
Introduzione
Significati di pazzia e pazzo
1. Non sempre è facile stabilire i confini tra santità e ‘pazzia’ intesa come rischio, progetto personale, cose fuori dal normale, affrontare situazioni che vanno oltre il buon senso, la ragione ragionevole, la prudenza dei saggi (cfr. 1Cor 2,1-5).
2. Comboni era davvero appassionato, disposto a pagare di persona e a soffrire qualsiasi cosa pur di guadagnare la Nigrizia a Cristo.
3. Comboni pazzo per essere convinto di costruire una Chiesa locale, autonoma e creativa nell’Africa con i suoi sacerdoti, laici e religiosi/e.
3.1 Legge assieme a loro, nel cuore dell’Africa il Vangelo. È da lì che sorge un nuovo stile di missione. Salvare l’Africa con l’Africa. Anche in Europa, in Italia, nelle nostre città e nei nostri paesi, presenti nelle situazioni di frontiera.
3.2 Valorizza i deboli sulla scia di Paolo: Dio ha scelto i rifiuti di questo mondo per confondere i forti (cfr. 1Cor 1,25 ss). Da schiavi sono diventati santi come Giuseppina Bakhita, sacerdoti come Daniele Sorur e Antonio Dobale, suore come Fortunata Quascé, e tanti maestri, catechiste, artigiani, infermiere…
3.3 Pazzo nel pensare e voler riunire le forze ecclesiali e gli Istituti religiosi (contro il maledetto egoismo fratesco) e i centri di apostolato cattolici.
4. Il santo così diventa capace, trova nel suo cuore infiammato dall’Amore di Cristo, la capacità di trasformare le realtà temporali, il quotidiano. Anche questa “pazzia” di intraprendere nuove strade, metodi, stili, opere, attività in risposta al grido dei sofferenti, e degli esclusi.
4.1 Uomo della Pentecoste, lui ha generato chiese, comunità cristiane che hanno resistito in mezzo alle bufere fino ad oggi.
4.2 Doveva essere pazzo Daniele per aver intrapreso l’opera più difficile nella Chiesa e continuare anche quando lo accusarono di mille peccati capitali a livello personale.
4.3 L’opera è sua. “Siamo servi inutili”. Facile dirlo a parole, diceva Comboni, “come tante persone sante, ma poi nella pratica, quando si vedono senza sostegni e senza mezzi, criticati e derisi, crollano perché erano solo parole”.
4.4 Pazzo perché ha voluto portare a Cristo l’Africa “barbara” e incastonare la nigricans margarita nel diadema della Chiesa.
4.5 Pazzo per aver pensato in quel tempo ai sacerdoti Fidei Donum. Ha anticipato quasi di un secolo il gesto di Pio XII in favore dell’America Latina! E anticipa il Concilio Vaticano II con una visione di Chiesa comunione e partecipazione. Pazzo a credere nei laici, maestri, artisti, catechisti… per portare il Vangelo e la civiltà. E anche noi che crediamo che questo è un tempo di grazia per la Chiesa italiana, per noi stessi, per i LC/LMC.
4.6 Pazzo nel credere nel ministero della donna africana, maestra di bianchi e neri come al Cairo. E nel credere nella capacità e santità delle suore che per primo ha portato nel centro dell’Africa.
4.7 Pazzo nel portare avanti allo stesso tempo gli Istituti di Verona, Cairo e Khartoum e le missioni nel cuore dell’Africa. Tutti siamo impegnati. Si possono affrontare vari impegni se si è radicati nel cuore di Cristo che ama e si dona.
5. Comboni è preso per pazzo come Gesù, perché ha lasciato padre e madre (sono rimasta con un figlio, e di carta!) per il Regno. “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Maria e Giuseppe meditano quelle parole… Anche nelle situazioni più complicate, sempre si può donare.
Allora di questi pazzi ne abbiamo bisogno, anche di laici e di famiglie… come i Corti, Annalena Tonelli, Candia, La Pira, Chico Mendes…
Conclusione
Essere Laici Comboniani oggi nella Chiesa italiana vuol dire leggere i segni dei tempi e cercare di rispondere con la Chiesa e nella Chiesa, aperti alle sfide del mondo… con il cuore nel cuore trafitto di Cristo.
Rileggere Comboni come LC/LMC per favorire la apertura alla missione della Chiesa locale (le parrocchie, i gruppi) perché possa essere creativa e non ripetitiva di modelli del passato.
Soprattutto per noi stessi, chiamati a incarnare il carisma del Comboni, perché ci impegniamo sempre più nella missione che è tra noi, con la testimonianza del nostro stile di vita personale, familiare e comunitario, e con l’annuncio di Cristo morto e risorto e del suo Regno di giustizia, pace e integrità del creato.
PADRE OTTAVIO RAIMONDO
(Direttore EMI)
ANIMAZIONE MISSIONARIA
Vorrei suddividere questo incontro in tre momenti:
- una panoramica sull’animazione missionaria oggi;
- gli strumenti di animazione missionaria oggi;
- un confronto con voi per scoprire insieme strade di animazione missionarie o priorità da perseguire.
Panoramica
1. Un punto di partenza che non possiamo dimenticare è questo: quel carisma che ha arricchito la tua vita può arricchire la vita di altri cristiani e, questo stesso carisma, non è dono di Dio semplicemente per te ma per tutta la Chiesa.
L’animazione missionaria è evangelizzazione (buona notizia) perché presenta il progetto di Dio sull’umanità e come Dio voglia realizzarlo grazie anche a te.
Tutti dobbiamo fare animazione missionaria ma ognuno secondo il proprio carisma.
L’animazione missionaria è un dono per coloro cui ci rivolgiamo ma è un dono anche per noi: come l’evangelizzazione di cui è parte, ci rinnova, ci motiva, infonde in noi nuove energie.
I missionari comboniani tra le priorità dei prossimi sei anni hanno messo al primo posto la riqualificazione del personale e al secondo l’animazione missionaria particolarmente nelle province del Nord.
E quando trattano dell’animazione missionaria si soffermano sulla formazione degli animatori; sulla specializzazione di personale qualificato nel campo dei mass media; l’elaborazione di piani concreti per la diffusione delle riviste e l’incremento degli abbonamenti. Chiedono poi che in ogni provincia ci sia una persona a tempo pieno per il ministero dell’animazione missionaria; che vengano sostenuti con mezzi e personale i Centri di animazione missionaria e, dove non ci sono, si creino.
2. In Europa e quindi anche in Italia l’animazione missionaria si sente interpellata da:
- una società che ha perso il riferimento a Gesù Cristo;
- nuove situazioni di emarginazione, legate soprattutto all’immigrazione;
- possibilità di intervento nel campo della Giustizia e Pace e salvaguardia del Creato;
- esigenze etiche dell’economia e della politica;
- necessità di creare nuovi modelli di sviluppo;
- una solidarietà intesa non più come carità ma come esigenza e frutto di giustizia;
- difficile dialogo con la cultura, i mezzi di comunicazione e la politica;
- difficoltà di presentare la vocazione missionaria ai giovani;
- un forte pessimismo per quanto riguarda il futuro sociale e politico dell’Africa.
3. Caratteristiche dell’animazione missionaria oggi:
- insieme tra di noi e con tutti (Chiesa locale – ONG – organismi – reti – realtà ecclesiali, sociali, politiche e culturali;
- nella pastorale ordinaria (o siamo comunità missionaria o non siamo comunità cristiana) nella continuità ma anche nell’emergenza e/o tempestività;
- nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa;
- nel coinvolgimento di altri;
- passando dalla pura e semplice autoreferenzialità (che in parte è propaganda) a mettere l’altro, la missione, le giovani Chiese, le culture… al centro;
- sulla strada della denuncia, dell’annuncio e della proposta concreta in stretta sintonia con la pastorale vocazionale.
Strumenti di animazione missionaria
Li possiamo suddividere nei seguenti:
- Internet: www.misna.org – www.giovaniemissione.it – www.emi.it – www.femmis.it. Mi soffermo sulla MISNA che dobbiamo fare conoscere e alla quale è possibile abbonarsi per valorizzare il database.
- Riviste: La FESMI è la federazione della stampa periodica italiana. Ma perché tante riviste? Quali sono le loro caratteristiche? Ne vediamo alcune per donne: RAGGIO e ANDARE ALLE GENTI; per ragazzi: PM e IM; per persone impegnate e famiglie: POPOLI, NIGRIZIA, MONDO E MISSIONE, MISSIONI CONSOLATA; di studio e pastorale: AD GENTES, MISSIONE OGGI… Abbonamenti…
- Libri: Editrice Missionaria Italiana della coop. SERMIS. Nata nel 1973 è l’editrice di 15 Istituti missionari. Mi soffermo sulla produzione più recente, sulla produzione di materiali riproposti annualmente, sulla diffusione, sui modi di collaborazione e su il SERVIZIO NOVITÀ.
- Una speciale attenzione la riserviamo a AGENDA BIBLICA MISSIONARIA – ECCO IO VENGO (sussidio per l’Avvento) – SOCIALWATCH e GUIDA DEL MONDO.
- Incontri e mostre. Possono essere di diversi tipi. Facciamo sì che in tutte le nostre attività ci sia sempre il momento o lo spazio culturale/formativo.
Confronto
Accanto alle vostre domande aggiungerei anche le seguenti:
E se il Laico Comboniano vivesse l’impegno di amare, servire e annunciare in sintonia con il carisma di Daniele Comboni?
Come state facendo animazione missionaria? Nelle nostre comunità e sul territorio?
Quali sono gli investimenti di personale e di mezzi nell’animazione missionaria?
Quali impegni potremmo prenderci? Non si tratta di aggiungere impegni ad altri impegni ma di fare dei tagli.
Valorizzazione delle librerie e dei gruppi…
Non potremmo indire una carovana di animazione missionaria attraverso varie città italiane?
Come valorizziamo il SUAM?
Convegno Missionario a Montesilvano.
Conclusione
Se la missione ce l’hai nel cuore la condividi con gli altri.
Essere animatori missionari è la prova del nove della tua missionarietà.
Grazie per la vostra testimonianza. Grazie.