Al rientro della nostra permanenza in Albania, non riuscivo a mettere in ordine tutte le emozioni vissute, neanche a lasciare le impressioni e i ringraziamenti per le motrat (“suore”) sul libro dove gli altri avevano scritto le sensazioni personali di quel luogo.
Sentivo tutto ovattato e gelatinoso, come se da una parte volessi ricordare, mentre dall’altra volevo cancellare la sofferenza provata nell’incontro con la donna, il bambino, l’uomo, profanati nella dignità di creature umane e divine. Anche a parlarne con gli altri mi sembrava quasi di violare l’intimità ferita di questo popolo.
Dal cuore pungenti lacrime stillano di dolore e di nostalgia per i volti conosciuti e lasciati, volti cari e segnati, volti coronati di fiero orgoglio per l’appartenenza ad un popolo di antiche tradizioni.
Albania, antica Illiria, ricca di cultura, di sentimento religioso. Shqipëri, che significa “Nido delle aquile”, dimenticata nella sua sudditanza turca, soffocata dalle mire degli stranieri e infine stritolata dalla dittatura. Uomini e donne di alti valori spirituali e civili, vennero travolti e annientati nel corpo e nello spirito.