Relazione finale progetto Aber

1. Introduzione

Questa relazione finale è articolata in due parti principali:

  • Una valutazione e resoconto a partire dagli obiettivi preposti
  • Una valutazione e resoconto a partire dal vissuto e dalle sensazioni personali

Nella prima si cercherà di fare una valutazione/resoconto su ciò che è avvenuto in questi tre anni dal punto di vista operativo. Per tale scopo riteniamo importante ripercorrere il cammino compiuto partendo da ciò che avevamo inserito nel progetto iniziale (obiettivi e descrizione del progetto, la rete delle realtà coinvolte, copertura economica e relazioni con la famiglia comboniana) e da ciò che stavamo vivendo a metà della nostra esperienza (per brevità inseriremo solamente il capitolo “conclusioni” del documento “verifica di metà progetto”).

Nella seconda parte si lascerà più spazio ad osservazioni generali cercando anche di cambiare un po’ la prospettiva da cui fare una valutazione. Ci proponiamo di non guardare ai risultati o agli aspetti strettamente operativi ma più al cammino fatto, all’impegno profuso, al come ci sentiamo noi, a cosa è stato importante, ecc.

 

2. Valutazione e resoconto a partire dagli obiettivi preposti

2.1. Rilettura del progetto “Piccione Marco e Pizzi Maria Grazia – Aber (Uganda) 2011-2014

2.1.1. Obiettivi

3: Obiettivi

3.1: Obiettivo generale del progetto

Questo progetto vuole essere pensato per una famiglia (e non due singoli laici) che si inserisce nel tessuto sociale locale con il quale condivide lo stile di vita e la quotidianità. In particolare vuole proporre una presenza missionaria integrata con la pastorale e con le azioni sociali a livello di famiglia comboniana. L’apostolato dei laici si realizzerà mediante lo svolgimento delle attività legate alla nostra professionalità, mediante la nostra specificità dell’essere famiglia e nella testimonianza del messaggio del Vangelo come buona notizia di pace, giustizia e speranza per tutti.

3.2: Obiettivi specifici

  • Maria Grazia si inserirà all’interno dell’ospedale diocesano presente ad Aber mentre Marco affiancherà le suore responsabili della gestione di un orfanotrofio rivolto a bambini e ragazzi tra i 6 e i 18 anni.

  • Ampliare e rafforzare autentiche esperienze di intercambio socio-pastorali.

  • Inserirsi in un progetto di Chiesa partecipativa, rafforzando la dimensione della comunione e della missionarietà.

  • Attività di pastorale della famiglia.

2.1.2. Descrizione del progetto

7: Descrizione del progetto

La realtà locale presenta molteplici sfide tra le quali sono state individuate tre aree di lavoro all’interno delle quali i laici possono avere modo di perseguire l’obiettivo di questo progetto. La scelta delle aree di intervento deriva dalla valutazione delle competenze dei LMC coinvolti, dalla loro natura stessa dell’essere famiglia cristiana unitamente all’individuazione delle necessità presenti al momento della stesura del progetto e riscontrate anche tramite il vescovo della diocesi locale. Il progetto prevede che le attività qui presentate possano essere modificate a seconda del mutare della realtà/necessità senza però cambiare le finalità del progetto.

Area di Lavoro 1: Attività socio-sanitaria

Maria Grazia si inserirà all’interno della realtà ospedaliera come medico svolgendo le normali attività previste e secondo le modalità concordate (turni notturni e festivi, rotazione sui vari reparti a seconda delle esigenze).

Area di Lavoro 2: Attività socio-educativa

Marco sarà inserito come educatore nella struttura che ospita bimbi e ragazzi orfani con età compresa tra i 6 e i 18 anni. In équipe con le suore che si occupano della gestione dell’orfanotrofio, verranno decise di volta in volta le attività e gli interventi più opportuni per il raggiungimento degli obiettivi educativi prestabiliti.

Area di Lavoro 3: Attività di pastorale familiare

Oltre ad essere presente come famiglia e condividere la quotidianità con la gente locale, pensiamo di stendere un progetto in collaborazione con il vescovo Franzelli e le realtà già presenti sul territorio con lo scopo di condividere con le famiglie del posto un percorso teso a rispondere alle problematiche che loro sentono come più vive, attuali ed urgenti.

2.1.3. La rete delle realtà coinvolte

Questo progetto si sviluppa grazie a due reti: la prima è una rete di realtà italiane, rete inviante; la seconda invece è una rete di realtà ugandesi, rete accogliente. Le realtà elencate di seguito, appartenenti alle due reti, contribuiscono, ciascuna con ciò che gli è proprio, alla buona riuscita del progetto garantendone la fattibilità, il sostegno, la risonanza (perché non sia un’esperienza isolata e muta) e il proseguimento dopo il ritorno in Italia dei LMC.

Realtà Contributo al progetto
Prima della partenza Durante il periodo di missione Dopo il ritorno in Italia
Diocesi di Lira Preparazione del progetto Accoglienza, inserimento nella realtà locale, accompagnamento durante il periodo di missione Supporto per la continuazione del progetto
Laici Comboniani Ricerca di risorse per l’inserimento di altri laici che continuino il progetto
Associazione Comunità e Famiglia Accoglienza dei laici in comunità Disponibilità a ri-accogliere i laici dopo l’esperienza per un periodo “paracadute”
Centro missionario diocesano di Milano Accompagnamento nella preparazione Promozione del progetto tra le attività sostenute dal Centro
Conferenza Episcopale Italiana (nella duplice veste del Centro Unitario Missionario e dell’Ufficio per la cooperazione missionaria tra le Chiese) Corso di Formazione Missionaria per l’Africa (26 Giugno – 31 Luglio 2011) Convenzione CEI per i laici missionari

2.1.4. Copertura economica

6: Copertura economica

Il progetto prevede il sostentamento dei due laici durante i tre anni di impegno. Le fonti di finanziamento in particolare saranno:

  • Le spese per il viaggio (andata all’inizio del progetto e ritorno al termine dello stesso) saranno compartecipate tra la Provincia comboniana italiana e i laici partenti.
  • Corso di formazione CUM in Italia a carico della Provincia comboniana italiana (850 € a persona + babysitting).
  • Spese di alloggio ad Aber a carico della diocesi di Lira.
  • Le spese per il vitto, gli spostamenti, i servizi essenziali (gas per cucinare, babysitter…) e i beni di prima necessità, quantificate in 200 euro mensili per ciascun laico (in totale 600 euro al mese) saranno coperte dallo stipendio che la diocesi di Lira pagherà a Maria Grazia e dal contributo delle realtà invianti (Diocesi di Milano, Provincia comboniana italiana, gruppi e associazioni in contatto con Maria Grazia e Marco). Si auspica inoltre (ma non è ancora accertato) un contributo che l’associazione che gestisce l’orfanotrofio verserà a Marco.
  • Copertura assicurativa e versamento dei contributi pensionistici saranno a carico della Conferenza Episcopale Italiana.
  • È infine prevista un’assicurazione suppletiva a carico della Provincia comboniana italiana.

2.1.5. Relazioni con la famiglia comboniana

8: Relazioni con la famiglia comboniana

Uno degli obiettivi dell’esperienza è partecipare alla costruzione di una comunità comprendente i laici comboniani e le realtà locali (sia consacrate che laiche), attraverso la condivisione, il lavoro pastorale e la spiritualità missionaria.

Per questo, si cercheranno di pianificare e realizzare incontri di preghiera e condivisione tra LMC, Comboniani consacrati presenti nel territorio circostante e la comunità religiosa locale. Si intende inoltre partecipare alle attività e alle celebrazioni parrocchiali.

Il progetto auspica che si possano creare altre occasioni informali di incontro e condivisione tra i LMC presenti in Uganda.

Inoltre, Marco e Maria Grazia potranno eventualmente partecipare a momenti di discussione e formazione realizzati con i Comboniani della Provincia ugandese.

 

2.2. Rilettura delle conclusioni tratte da “Valutazione di metà progetto”

In conclusione si può dire che la realtà di questo primo anno e mezzo di progetto ci ha messo di fronte ad alcune difficoltà e ad alcune paure che già ci aspettavamo e ad altre che, invece, ci hanno richiesto (e ci richiederanno nella seconda metà di permanenza) un cambiamento di rotta o, quanto meno, un riposizionamento degli obiettivi e una rivalutazione delle strategie per raggiungerli.

Nello specifico, per quanto riguarda le nostre professioni, credo che abbiamo raggiunto un buon grado di inserimento e di collaborazione con il personale locale (pur rimanendo diversità di vedute su alcuni aspetti). Sicuramente la cosa più importante sarà continuare a trasmettere l’idea che i nostri lavori sono prima di tutto dei servizi a disposizione di chi ne ha bisogno e che quindi lo spirito con cui vanno portati avanti è soprattutto uno spirito, appunto, di servizio.

Per quanto riguarda invece le altre attività cercheremo di far tesoro di quanto appreso in questo periodo, cercando di orientarle tenendo presente le strutture e le modalità radicate in questa realtà. In modo particolare, cercheremo di usare la struttura più radicata e più capillare che è quella delle Small Christian Communities.

Obiettivi prioritari saranno inoltre mettere in mano della gente locale qualunque tipo di attività si cercherà di portare avanti e cercare di mettere in rete la piccola realtà di Aber con quanto avviene sul territorio diocesano e nazionale.

 

2.3. Considerazioni e valutazioni finali sull’andamento del progetto dal punto di vista operativo

2.3.1. Obiettivo generale del progetto

Seppur con modalità diverse da quelle previste inizialmente (come verrà specificato nelle varie aree di lavoro) ci sentiamo di dire che l’obiettivo di integrarsi con il tessuto sociale è stato raggiunto. Nei vari ambiti in cui ci siamo inseriti abbiamo infatti sempre cercato di mettere al centro la relazione con l’altro come strumento principale di evangelizzazione permeando tutte le attività di quel senso di partecipazione attiva, serietà e gratuità proprie del Vangelo.

2.3.2. Le aree di lavoro

2.3.2.1. Area di lavoro 1: attività socio-sanitaria (Maria Grazia)

Il mio inserimento è stato totale e devo dire profondo, forse talvolta troppo esclusivo. Credo di avere conosciuto piuttosto a fondo la realtà dell’ospedale di Aber in tutte le sue sfaccettature ed in tutte le sue componenti. Senza intervenire nel modificare più di tanto ciò che mi ha circondata (… purtroppo?… per fortuna?…) mi sono calata profondamente nelle loro modalità e nelle loro dinamiche cercando comunque di portare avanti un certo stile di serietà, integrità, dedizione, rispetto reciproco (darlo e pretenderlo) e vado via sentendo di appartenere a questa comunità dell’ospedale di Aber (infermieri, colleghi, tutto lo staff, pazienti).

Al di là di questa valutazione generale, mi sono posta più volte il quesito se fosse necessario valutare i risultati della mia presenza in ospedale. Credo che alla fine sia inevitabile fare questo bilancio, cercare di vedere i frutti di tanta fatica, tanta sofferenza, tanta dedizione. Credo sia doveroso anche fare i conti con i miei fallimenti, serenamente, e cercare di raccogliere i pochi frutti, senza ingordigia.

Ora che si avvicina per me il momento di lasciare l’ospedale mi rendo conto di cosa deve essere successo prima, di come deve essere stato per gli altri, quelli prima di me.

Quando si arriva si pensa di essere i primi ad arrivare in Africa e a fare qualcosa che possa veramente portare un cambiamento. Si vedono con chiarezza i problemi e gli impedimenti a risolverli. Si cerca subito di mettere in atto delle pratiche per superare i problemi, stabilire un nuovo comportamento più corretto in una determinata situazione e infine si cerca di consolidare tale nuova pratica investendoci tutta la pazienza e la perseveranza e la tolleranza di cui siamo capaci credendo così a poco a poco di avviare tanti piccoli circoli virtuosi.

Poi ci si accorge che in ogni modo lo si proponga il cambiamento non attecchisce. Allora in me si sono susseguite diverse reazioni.

La prima è stata cercare di pretendere quelle piccole innovazioni.

Sottolineo che si tratta di ordinari compiti da svolgere in un ospedale, anzi direi minimi, sicuramente inferiori a quelli minimi che ci si aspetta in un ospedale occidentale, e comunque dallo staff unanimemente accettati come doveri minimi, anche per scritto con verbali di svariati meeting, quindi non pretese astruse da medico bianco. Nello specifico si tratta di prendere osservazioni e somministrare farmaci in modo rigoroso e costante, riportare adeguatamente e tempestivamente le criticità dei pazienti, avere ambienti e dispositivi puliti e pronti per l’utilizzo, ottenere i risultati degli esami secondo tempistica concordata e fattibile, avere una disponibilità di farmaci e altri presidi in modo continuo e affidabile per far fronte ad ogni necessità di base.

La mia prima reazione dunque è stata quella di pretendere. Continuare a chiedere con costanza e precisione, sempre, ogni giorno, controllare assiduamente, richiamare gli inadempienti e poi trovare per essi anche forme di punizione per la mancata assoluzione di un compito.

Il risultato potrei dire che è stato ottenuto ad un 70% sotto il massimo stimolo che scende drasticamente a 10% non appena viene abbassato il sistema di controllo (per altro messo in atto solo da me).

La seconda fase allora è stata quella arrabbiata e sfidante potrei dire. Supponendo che non mi importi più niente dei pazienti ho adottato questo atteggiamento: io chiedo le cose una volta e se non vengono fatte, riporto ogni volta il trasgressore al proprio superiore.

Questo è stato l’approccio sicuramente più fallimentare, frustrante e deprimente. Di fatto chi è istituzionalmente responsabile non ha mai voluto prendere provvedimenti disciplinari nei confronti di nessuno a meno che non si trattasse di furto o truffa ai danni dell’ospedale. Tutto ciò che era semplicemente inadempienza del proprio dovere è stato accettato tollerato, lasciato passare senza neanche un vero richiamo.

L’ultima reazione, forse la più triste, quella che precede la ritirata dopo la sconfitta, che lascia dietro la terra bruciata, quella che troverà chi arriva dopo di me e si chiederà “ma non c’è mai stato un medico ad Aber prima d’ora?”, è stata quella di continuare a fare il mio dovere al meglio (e già questo richiede grande sforzo quando sei in netta minoranza) senza controllare o interessarmi di quello degli altri o delle conseguenze che le inadempienze potessero portare e semplicemente agire al meglio possibile nelle condizioni date (esempio: se non vedo in cartella il risultato di un esame non muovo mari e monti per cercarlo di persona ed averlo al più presto. Semplicemente riscrivo in cartella: “fare il tal esame” e poi passo la cartella all’infermiera senza parlare, come a dire “io quello che dovevo fare l’ho fatto: e tu?”. Ma il sarcasmo e il sottinteso non sono metodi di comunicazione che sembrano funzionare qui).

Alla fine mi sono convinta che cercare di produrre un cambiamento qui è come scrivere, edificare, su un bagnasciuga. Ad ogni moto delle onde tutto ritorna liscio e levigato, come se nessuna mano fosse mai passata, come se tutto fosse nuovo, lucido immacolato, lindo, anche bello a suo modo.

Infine sorprendentemente, forse, c’è stata una quarta reazione, che però non è dipesa da me, ma è venuta da loro. La caposala mi ha chiesto di ricominciare a controllare il lavoro delle sue colleghe e di segnalargli ogni inadempienza di modo da poter prendere dei provvedimenti, o almeno da farlo notare tutte le volte. Ho acconsentito solo perché questa volta non è una mia iniziativa, ma viene da un loro bisogno. Non so se questo avrà alcun esito o più probabilmente rimarrà solo quella terra bruciata, quel bagnasciuga levigato.

Per arrivare a questo passo, a questa iniziativa spontanea che io abbia saputo riconoscere, sono passati quasi tre anni. E non credo assolutamente di avere prodotto alcun cambiamento, questo no. Solo è stato il tempo ed il lavoro necessario per sintonizzarci. E ora si deve nuovamente cambiare musica. Sia loro che io.

Non mi stupisce affatto ora che ognuno che arrivi qui si senta investito dell’arduo compito di fare tutto da capo e che con un po’ di superbia all’inizio pensi “ma i miei colleghi prima di me come hanno lavorato?”. Ora comprendo questa dinamica, mi sembra di vedere cosa è successo le mille volte prima di me, a partire dalle missionarie comboniane negli anni Settanta.

Tra me e me ho cercato anche di rispondere ad una serie di domande pericolose e pretestuose, tutte che iniziano con inesorabili “perché”.

Perché il cambiamento non attecchisce? Perché pur sapendo cosa e come fare non lo fanno?

Le risposte sono tante e per un periodo ho pensato di avere ottenuto una spiegazione esauriente, ma ora, alla fine, non ne sono più tanto sicura.

Ho cercato di epurare le risposte che avessero una qualsiasi tendenza alla superficialità, ai luoghi comuni o addirittura ad un sottile razzismo.

Perché non c’è un sufficiente sistema di controllo e coercizione.

Perché i pazienti non hanno nessun potere contrattuale nella richiesta del servizio sanitario, cioè nella quasi totalità non ti denuncerebbero mai neanche davanti ad una colposità più che evidente e dimostrabile.

Perché non hanno una deontologia professionale radicata.

Perché non credono veramente nella medicina occidentale basata sull’evidenza.

Perché una struttura sanitaria basata su una concezione occidentale non appartiene loro e la percepiscono comunque e sempre come l’ospedale dei missionari o dei bianchi e quindi loro onore e onere e non è considerato come un bene che appartiene ed è a servizio della comunità e come tale va curato.

Per concludere queste, che sono valutazioni strettamente legate al mio lavoro, posso dire che le criticità e le difficoltà sono sicuramente dovute al fatto di essere stata inserita nella realtà dell’ospedale come semplice dipendente, non come cooperante o missionaria, ma è anche stato il miglior mezzo e il miglior modo per entrare in profondità nelle relazioni nel modo più giusto e rispettoso, anche se sicuramente ha provocato difficoltà e tanti dubbi sul fatto che sia stata effettivamente la modalità giusta, soprattutto per la quasi totale mancanza di effetti visibili.

2.3.2.2. Area di lavoro 2: attività socio-educativa (Marco)

Rileggendo il cammino compiuto a partire dagli obiettivi specifici che ci eravamo dati prima della partenza, dalla valutazione di metà progetto e fino ad arrivare alla situazione attuale, credo che si possa dire che le cose, nel bene o nel male, non sono andate esattamente come previsto. Le cause credo che siano da ricercarsi nella non perfetta conoscenza del territorio al momento della nostra partenza, in errori fatti da alcuni attori coinvolti e talvolta dalla scarsa volontà di altri ad accettare la mia presenza che sarebbe potuta risultare scomoda. Gli obiettivi e le attività pratiche della nostra presenza sono quindi cambiati nel corso di questo periodo rimodellandosi a seconda delle esigenze che emergevano, delle problematiche che nascevano e di ciò che piano piano scoprivamo di questa realtà di Aber, ma la modalità con cui ho cercato di pormi e testimoniare così il Vangelo è rimasta invece fedele a quella iniziale. L’aver cambiato rotta durante il progetto non è da ritenersi un fallimento ma, anzi, è un aspetto molto positivo che sottolinea la fortuna che ho avuto nell’aver potuto mettermi in ascolto. Volendo fare un’analisi onesta, si può dire che la situazione che mi sono trovato presto a dover affrontare era una situazione di chiusura quasi totale da parte della realtà in cui sarei dovuto essere maggiormente impiegato (il St. Clare) e, dall’altra parte, grandi richieste di collaborazione provenienti dalle più svariate realtà del territorio. Cercando di far combaciare le esigenze familiari con questi impegni che nascevano sempre nuovi e pressanti, ho cercato di continuare a stare, per quanto mi veniva concesso, con i ragazzi dell’orfanotrofio ma, allo stesso tempo, ho cercato di dar senso e ordine alle altre richieste. Così, soprattutto in questa seconda metà di progetto, mi sono messo in gioco in attività non previste né prevedibili all’inizio (corsi di computer per varie categorie di persone, piccoli progetti di microcredito, corso sulla missionarietà alla scuola di Aboke, progetto Inter-Campus nella scuola primaria, ecc.).

Credo sia importante soffermarsi un attimo sui motivi del mio fallito inserimento nell’équipe del St. Clare. Due, a mio avviso, sono stati gli aspetti fondamentali: il primo è un errore da parte mia e, credo, da parte di chi mi avrebbe dovuto introdurre, ossia il vescovo di Lira. Vista soprattutto l’estrema formalità su cui si reggono le strutture qui in Uganda, è stata una mancanza molto grave non aver fatto una presentazione ufficiale della mia figura esplicitando davanti ai donors e alle suore responsabili della struttura (e forse anche davanti a me) il mio ruolo e le finalità della mia presenza. Forse si è dato per scontato che una figura educativa presente per tre anni, con una certa esperienza nello stare con i ragazzi e a costo zero (!) potesse essere automaticamente ben accettata. In realtà non è stato così. Forse perché il mio stare lì non era un semplice far giocare i ragazzi nei tempi morti ma, piuttosto, un voler dare una certa impostazione e un certo orientamento educativo ad una struttura che, avendo a che fare con bimbi e adolescenti con realtà difficili alle spalle, dovrebbe mettere al centro la loro crescita come persone. Questo, sia per motivi legati ad un’idea di educazione molto accademica e depositaria sia, purtroppo, perché non sempre era la priorità del management, sia per evidenti errori di progettazione e gestione fatti dai donors, non è stato possibile farlo. A questo punto si inserisce il secondo aspetto del fallito inserimento e cioè la volontà di non voler cambiare lo status quo da parte delle suore che si sono dimostrate poco aperte e disponibili al dialogo forse per paura che qualcuno, dall’interno, potesse evidenziare l’inadeguatezza di alcune persone nel ricoprire alcune posizioni. Fortunatamente, malgrado tutto questo, ringrazio per la fortuna che ho avuto di poter stare con i ragazzi e aver comunque costruito relazioni che, almeno da parte mia, non sarà facile dimenticare.

Per quanto riguarda, infine, l’idea di “Ampliare e rafforzare autentiche esperienze di intercambio socio-pastorali” e “Inserirsi in un progetto di Chiesa partecipativa, rafforzando la dimensione della comunione e della missionarietà” questo si è cercato di farlo soprattutto tramite le attività legate alla commissione giustizia e pace. In questo ambito si è cercato di far passare la nostra idea di Chiesa immersa nel sociale, di fede e valori cristiani vissuti fuori dalle pareti del “Tempio” soprattutto tramite un impegno quotidiano affinché la giustizia e la pace possano essere un diritto per tutti. In questa seconda metà di progetto abbiamo cercato di fare tesoro di quanto appreso nel primo anno e mezzo a riguardo del tessuto sociale locale e abbiamo cercato di raggiungere e coinvolgere capillarmente il maggior numero di persone possibile grazie alla struttura delle Small Christian Communities.

2.3.2.3. Area di lavoro 3: attività di pastorale familiare

Per quanto riguarda l’obiettivo legato alla pastorale della famiglia, le attività non sono state molto numerose. Le cause principali credo siano state soprattutto la difficoltà di trovare tempi e modalità per proporre qualcosa di nuovo e il fatto che, comunque, esiste già un percorso rivolto alle famiglie in procinto di matrimonio o già sposate nel quale però, al di là di qualche intervento che mi è stato richiesto, non sono riuscito ad inserirmi più di tanto. Sicuramente è stato possibile, bello e, credo, importante poter invece essere presenti costantemente per tre anni come famiglia condividendo nella quotidianità le nostre difficoltà e le modalità attuate per affrontarle e superarle.

2.3.3. La rete delle realtà coinvolte

Direi che più o meno tutte le realtà hanno svolto i propri compiti secondo quanto pattuito. Le uniche due annotazioni che posso fare riguardano la Diocesi di Lira e i laici comboniani: come detto nel capitolo riguardante l’area di lavoro 2, il mio inserimento al St. Clare da parte del referente della diocesi non è stato effettuato nel migliore dei modi. Sarebbe stata necessaria maggiore chiarezza nei confronti dei donors e delle suore responsabili dell’orfanotrofio. Anche l’inserimento nelle attività della parrocchia non è stato molto facilitato ma lasciato più che altro alla mia iniziativa. L’accompagnamento, probabilmente per ragioni di lontananza fisica e di scarsità di tempi, è stato fatto un po’ quando capitava senza dedicargli il giusto tempo. Da parte invece degli LMC c’è stato un accompagnamento costante e molto intenso. È stato di assoluta importanza per noi, per la fattibilità del progetto e per la risonanza che questo ha potuto avere in Italia. Per quanto riguarda invece la continuità di una presenza laicale comboniana dopo il nostro ritorno in Italia si è scelto, per vari motivi, di preferire la realtà di Gulu.

2.3.4. La copertura economica

Anche per quanto riguarda la copertura economica tutti gli attori coinvolti hanno partecipato secondo quanto previsto dal progetto. Le uniche eccezioni riguardano le spese di viaggio, per cui la Provincia comboniana italiana non ha contribuito, e le spese varie per vitto e “sopravvivenza” a cui la diocesi di Milano e la Provincia comboniana italiana non hanno partecipato. La diocesi di Lira si è fatta carico del pagamento dei nostri visti. L’ultima annotazione economica per sottolineare come l’auspicato (e forse dovuto) contributo che i donors dell’orfanotrofio avevano prospettato per il lavoro di Marco non c’è stato.

2.3.5. Relazioni con la famiglia comboniana

Le relazioni con la famiglia comboniana si possono riassumere in: relazione con la Provincia italiana (religiosi e laici), relazione con la Provincia ugandese (religiosi e laici) e relazione con i comboniani (religiosi e laici) presenti sul territorio della diocesi di Lira. Come già sottolineato, le relazioni con i laici italiani sono state continue, intense e preziosissime. I religiosi della Provincia italiana sono stati presenti in modo discontinuo. Forse anche a causa del cambiamento del padre responsabile per i laici, non c’è stata una vicinanza, un interessamento e una relazione ottimale. Per quanto riguarda invece i religiosi della Provincia ugandese, la relazione è stata preziosa soprattutto per il supporto logistico e assistenza nelle pratiche burocratiche. Con i laici, ugandesi e non, che lavorano in Uganda abbiamo avuto momenti di incontro con finalità di conoscenza reciproca, di formazione e di condivisione. Infine, con i comboniani presenti sul territorio della diocesi di Lira si sono organizzati in tutti e tre gli anni incontri con scadenza bimestrale in cui c’era la possibilità di condividere il proprio vissuto, le difficoltà e le gioie attraverso cui siamo passati in questo periodo.

Infine grazie al confronto con le commissioni per i laici a livello europeo e mondiale, sta nascendo una nuova comunità LMC internazionale a Gulu, nel Nord Uganda, che sentiamo essere espressione della nostra esperienza e della nostra missione di questi anni e anche di Caterina che ci ha preceduti.

 

3. Valutazione e resoconto a partire dal vissuto e dalle sensazioni personali

3.1. Marco

Questa parte di relazione vuole più che altro essere un’occasione per rivalutare l’esperienza da un punto di vista diverso da quello puramente legato all’aspetto operativo. Per quanto mi riguarda, in questa parte vorrei prendere in considerazione soprattutto tre aspetti:

  • L’impegno profuso durante il periodo
  • Una valutazione legata alla modalità con cui siamo stati presenti
  • La diversità di lavorare con le amministrazioni o con i destinatari dei servizi in cui abbiamo operato.

Per quanto riguarda il primo punto sono soddisfatto. Ripensando ai vari periodi passati devo dire che ho sempre cercato di dare il massimo e questo mi rende sereno. Come già dicevo precedentemente sicuramente ho commesso degli errori ma ho sempre cercato di fare ciò che ritenevo giusto mettendoci tutto me stesso. Devo dire che la preghiera e la condivisione mi hanno aiutato spesso a trovare forze e volontà che non pensavo di avere. Un altro aspetto in cui la fede e gli amici mi hanno aiutato a crescere è il sapersi affidare. Soprattutto all’inizio le paure erano tante e i pericoli nuovi. Ogni tentativo di controllare tutto, soprattutto ciò che riguardava i bambini, era vano e così l’unica soluzione era affidarsi. In questo mi sembra di essere cresciuto e spero di riuscire a continuare a farlo anche al rientro in Italia.

La modalità con cui abbiamo voluto essere presenti è stata definita da qualcuno “encomiabile ma inaccettabile”. In effetti è stata spesso un freno, almeno in apparenza, verso alcune attività che avremmo voluto intraprendere e alcuni cambiamenti che avremmo voluto apportare. Nello specifico, il fatto di non ricoprire posizioni di “potere” non ci ha permesso di imporre ciò che avremmo voluto ma, vedendo ciò che è avvenuto con alcune ONG che abbiamo incontrato in questo periodo, proprio il fatto di non imporre il cambiamento è un valore aggiunto. Può essere illusorio ma noi crediamo che, costruendolo insieme, il cambiamento può essere più duraturo, sostenibile e la gente lo può sentire come qualcosa che gli appartiene e non che gli arriva dall’alto. Avendo la fortuna di stare vicino alla gente per tutto questo periodo, è stato molto facile, chiaro e, lasciatemi dire, triste vedere come le cose siano diverse quando i donors che portano i soldi sono in giro e quando invece non ci sono. Questo velo di falsità che tutto andasse bene per continuare a ricevere soldi, non aveva senso di esistere con noi e purtroppo abbiamo potuto osservare tante carenze nei progetti supportati dall’esterno.

Un’ultima valutazione agrodolce riguarda il nostro servizio con la gente. Se la relazione con i beneficiari dei servizi in cui eravamo inseriti (pazienti dell’ospedale, ragazzi del St. Clare e gruppi parrocchiali e non) è stata totalmente positiva seppur con delle difficoltà, lo stesso non si può dire dei tentativi di collaborazione con le amministrazioni delle strutture. In modo particolare con il management dell’ospedale, con le suore dell’orfanotrofio e con i preti della parrocchia la relazione non è stata facile ma, ciò che è peggio, spesso non è stata neanche voluta e cercata da parte loro. Non so esattamente le ragioni di questo comportamento ma ciò che posso supporre ci porta ancora indietro al discorso dei soldi. Purtroppo siamo arrivati a pensare che mentre i beneficiari dei servizi apprezzano il nostro impegno soprattutto in termini di attenzione dedicatagli, gli amministratori che non trovano un qualche vantaggio personale nella cooperazione, non apprezzano molto il cambiamento e i suggerimenti e non sono molto desiderosi di migliorare il servizio.

Per concludere questa relazione finale della nostra esperienza, vorrei utilizzare un’attività che merita assolutamente di essere citata e di avere una sua valutazione a parte: l’esperienza del pellegrinaggio a Namugongo. Credo sia stata un’opportunità unica, un’occasione imperdibile per la ricchezza di significati che racchiudeva in sé. Una condivisione delle difficoltà quotidiane e della fede che è valsa molto più di tante parole e di tanti progetti. Un modo per far passare la nostra idea di missione: camminare insieme con Dio e verso Dio ognuno con le proprie debolezze, tutti sullo stesso livello. Anzi, per una volta ero io ad avere bisogno del loro aiuto perché non abituato a tanto cammino, al tipo di cibo e al modo di lavarsi e di dormire.

Per questa esperienza e per tutti questi tre anni va un grazie di cuore a tutte le persone che hanno camminato con noi.

3.2. Maria Grazia

Riguardando indietro al periodo trascorso non posso che essere felice della scelta fatta e del tempo trascorso in missione ad Aber. Non sono mancate le difficoltà, lo sconforto, le paure, le delusioni, la fatica, in abbondanza, ma tutto questo sommato insieme non può in alcun modo farmi pensare che ciò che abbiamo fatto non sia stata la cosa giusta per noi, per la nostra famiglia.

Il primo pensiero è di gratitudine perché abbiamo avuto il dono di poter stare tutti bene sia fisicamente che psicologicamente, sia noi che le nostre famiglie ed i nostri cari rimasti in Italia, e questo non era affatto scontato. Poi abbiamo avuto il grande dono di allargare la nostra famiglia con Samuel. Oltre a questo abbiamo avuto anche altri doni per la nostra vita familiare. Dopo il primo periodo di assestamento, soprattutto grazie alla versatilità delle occupazioni di Marco, abbiamo sempre avuto molto tempo per le relazioni fra noi e con gli altri e abbiamo avuto spesso l’occasione di ospitare e accogliere sia persone della comunità sia amici o conoscenti che venivano dall’Italia e questo è sempre stato un grande dono. Abbiamo imparato l’accoglienza, l’apertura ed anche a fare una vita più semplice e sobria, non troppo piena di cose da fare o da avere, ma non per questo priva del più che sufficiente per stare bene.

Le relazioni con le persone incontrate qui ad Aber non sono facili da valutare. Molto spesso sono state condizionate dalla nostra posizione e dalle nostre possibilità economiche, ma mantenendo uno stile sobrio e giusto anche nella generosità abbiamo cercato di purificare il più possibile questi rapporti, riuscendo a stabilire un certo numero di buone relazioni, sincere e da pari almeno, se non di amicizia talvolta.

Questo modo di fare e la possibilità di entrare nelle varie strutture senza canali preferenziali o con ruoli particolari in quanto missionari ci ha permesso di vivere davvero la nostra esperienza missionaria come condivisione, quel “fare causa comune” di cui parlava Comboni. Non è stato facile, spesso ci siamo chiesti se fosse il modo giusto. Ma alla fine, almeno per quanto mi riguarda, credo di poter dire di sentirmi parte della comunità con cui abbiamo vissuto. Li conosco, li comprendo e sono compresa molto più di quanto avrei mai potuto aspettarmi considerando l’abisso culturale che ci separa e il relativo poco tempo trascorso. Credo di poter attribuire ciò al fatto che siamo stati liberi da nostri obiettivi, nostri progetti da realizzare, ma abbiamo dovuto capire cosa e come fare prima di tutto imparando ad osservare e ascoltare.

Credo che da questo vengano i frutti più importanti che portiamo e che lasciamo. Nella nostra visione di missione laicale come inserimento in una realtà e assunzione di tutta quella realtà su di sé, sull’esempio della croce, i frutti generati sono difficili da enumerare e valutare, ma sono per noi fonte di grande gioia: relazioni, esperienze, conoscenza di altri mondi, di altri modi di sentire e di vivere, stili di vita, vicinanza agli ultimi, riscoperta di una carità giusta, della dignità di tutti, vedere mondi che sembrano non essere mai stati visti da altri, eppure sussistono nello sguardo di un Dio così grande che non dimentica davvero nessuno dei suoi figli.

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